«Ci saremmo svegliati questa mattina presto dopo la serata alla Scala, il concerto e la cena per i nostri ospiti sul palco del teatro più conosciuto al mondo. Saremmo andati in Fiera all’alba per controllare gli stand. Ci saremmo emozionati, come sempre». Doveva cominciare oggi il Salone del Mobile: taglio del nastro, padiglioni strapieni, 450 mila visitatori. Poi è arrivato Covid-19, la settimana del design è stata spostata a giugno e infine cancellata. Claudio Luti, il presidente, dà appuntamento al 2021 «con un’edizione fantastica». Questa volta, però, perfino il suo solido ottimismo sembra vacillare: «Siamo preoccupati. Tante piccole aziende sono in difficoltà, alcune rischiano di chiudere. E non si tratta solo di un appuntamento che salta. È lo spartiacque tra un prima e un dopo».
Stato d’animo attuale?
«Il Salone è Milano e oggi Milano, come tante città italiane, è ferita. Quindi il Salone si stringe alla città e a tutte le famiglie che stanno soffrendo e combattendo contro il virus. Il primo pensiero è per loro. Ma il Salone è la sintesi di tante realtà che devono ripartire. Per loro e per il Paese. E per riportare a Milano quella magia che animava la settimana del design con le inaugurazioni, gli eventi culturali, i visitatori in arrivo da tutto il mondo per noi, a casa nostra. Che fortuna, non ce ne rendevamo conto».
Lo davate per scontato?
«In un certo senso sì, il movimento creato dal Salone in aprile ci sembrava naturale, mentre quella meravigliosa e delicata combinazione di creatività, organizzazione, bellezza, lavoro è frutto di una complessa strategia. Ma purtroppo quest’anno non ci sarà. È un grande dispiacere, un vuoto che disorienta».
E un’immensa perdita economica. Si parla di 1,3 miliardi di mancato indotto per il settore.
«L’ultimo bilancio ha solo una voce: i costi. Zero ricavi».
Che cosa chiedono le aziende?
«Di ripartire, di lavorare».
Anche con il lockdown?
«Noi alla Kartell (l’azienda di Luti, ndr) saremmo pronti già da un mese».
In sicurezza?
«Abbiamo previsto il distanziamento, immaginato tre turni di mensa. Potessi, farei tamponi e test sierologici a tutti i lavoratori di Kartell, dove lavorano anche i miei figli».
Perché è così urgente ripartire?
«Perché la filiera italiana dell’arredamento non deve spegnersi, è unica. La sua bellezza, che in questo momento è anche una fragilità, sta nell’essere composta da tante piccole realtà familiari che rischiano di non riaprire più. Ed è gravissimo, perché il made in Italy senza di loro non può esistere. Riusciamo a realizzare certi prodotti solo grazie all’impegno di tutti, dai grandi designer e architetti fino ai piccoli imprenditori e artigiani. Che sento spesso».
E che cosa le dicono?
«Che sono in ginocchio. Che se saranno costretti a chiudere non avranno più la forza di ricominciare. Che hanno paura di essere sostituiti. Chiedono di riaprire, molto più che aiuti economici».
E Philippe Starck, che da anni lavora con lei, lo ha sentito?
«Certo, come Ferruccio Laviani, Piero Lissoni e tutti i designer che collaborano con noi. Sono pieni di idee, vogliono vedere i prodotti ma in video è complicato capire le proporzioni, le forme».
A questo proposito, sono molti gli attori — a partire dal Fuorisalone — che stanno organizzando piattaforme digitali per tenere vivo l’interesse sul design italiano. Voi del Salone pensate a qualcosa di simile?
«Siamo favorevolissimi all’innovazione, al digitale che riesce a rendere virtuale quello che non può essere fruibile realmente. Ciascuno attiverà le proprie strategie e il Salone affiancherà le aziende nel periodo che ci separa dalla prossima edizione. Detto questo, il Salone lo devi toccare… Quella sensazione è insostituibile».
E da dimenticare, almeno per un po’.
«Per noi tutti la mancanza del Salone non è solo un appuntamento che salta».
La riscossa
«L’edizione del 2021 sarà quella dei nostri sessant’anni. Stiamo già tutti lavorando a una manifestazione eccezionale»
Che cosa intende dire?
«Covid-19 ha cambiato il nostro modo di pensare, di spostarci, di lavorare. Appena potremo riprendere a dialogare, consegnare le nostre merci e avviare i nostri macchinari, dovremo mettere a disposizione della comunità la nostra forza: la creatività».
Per fare cosa?
«Magari per ragionare su nuove forme dell’abitare e dell’accoglienza. Certo, nulla sarà come prima. E appunto noi che ci occupiamo di idee che fanno sognare, abbiamo il dovere di far diventare questa crisi un’opportunità di cambiamento. Il virus ha lasciato sul campo troppe vittime: ora dobbiamo lavorare cercando di trovare una nuova normalità».
Servirà uno sforzo enorme.
«Vero, ma non dobbiamo rassegnarci. Piuttosto, come abbiamo sempre fatto nei momenti di difficoltà, è nostro dovere tirare fuori il nostro meglio. Abbiamo bisogno di poter entrare in azienda e ricominciare, rispetteremo tutte le regole. Ma l’Europa e il governo ci dovranno aiutare».
Come?
«Senza inondarci di burocrazia, agevolando il lavoro, un lavoro agile non solo a casa. Sostenendo l’export e il sistema imprenditoriale, mettendolo in grado di giocare una partita con le stesse regole dei competitor. Dovremo affrontare la partita globale di un nuovo mondo globale».
Resta un ottimista.
«Se penso all’Italia anche io vacillo. Mi spaventano la corsa all’indebitamento, il divario tra Nord e Sud, i posti di lavoro spazzati via… Vedo alzarsi muri. L’Europa in cui tanto speravo mi sembra debole. Serve la visione di lungo periodo che vibrava negli statisti del Dopoguerra. Dobbiamo essere uniti, credere in valori comuni. È quello che continuo a dire durante le riunioni del Salone».
Le fate regolarmente?
«Certo. È importante fare squadra, soprattutto nei momenti difficili. Anche perché il Salone 2021 richiederà un lavoro senza precedenti».
Per recuperare le posizioni perse? La concorrenza non si ferma. Sarà spietata.
«Malgrado tutto, malgrado anche il nuovo mondo, Milano resterà Milano. La riapertura graduale ci porterà alla prossima primavera con una grande voglia di rinascere, di vedere nuovi progetti. Di vendere e di acquistare. Di emozionarci. Non vogliamo perdere il primato del Salone. Non dobbiamo. Non possiamo».
Come sarà il Salone 2021?
«L’edizione dei 60 anni: una festa che arriverà dopo 12 mesi di distanziamento sociale. Forse non potremo più avere grandi affollamenti (e ragioneremo anche su questo), forse dovremo abituarci a una nuova mobilità, ma sono convinto che la gente avrà voglia di viaggiare, di muoversi, di tornare in Italia. Dovremo presentare un’offerta unica, straordinaria».
Prima, il prossimo autunno, in agenda ci sono le trasferte del Salone a Mosca e Shanghai. Confermate?
«Stiamo valutando, abbiamo ancora un po’ di margine per decidere».
Torniamo al Salone. Com’era il suo stand?
«Lo abbiamo fatto e rifatto, volevo metterci anche una Cinquecento… Eravamo così felici. Torneremo a esserlo».
Sicuro?
«Siamo una piccola nazione. Ma sappiamo fare cultura e innovazione. E vivere bene, emozionare. Per salvarci dobbiamo essere uniti e dire al mondo quanto siamo bravi».