L’idea di introdurre un salario minimo non è, in linea di principio, sbagliata. Tutt’altro. Esiste in 22 Paesi europei. Non ce l’hanno, per esempio, in Svezia, Finlandia, Danimarca. Nazioni non insensibili ai diritti dei lavoratori ma con una contrattazione collettiva pressoché generale. Dunque, in quei contesti economici il salario minimo orario viene ritenuto inutile. Naturalmente nessuno dei proponenti italiani pensa che il livello di retribuzione base possa essere, nemmeno lontanamente, equiparabile a quelli imposti per legge da alcuni membri dell’Unione europea. Per esempio, i sovranisti che piacciono così tanto alla maggioranza gialloverde. L’Ungheria ha un salario minimo di 2,65 euro l’ora; la Repubblica Ceca di 3,10; la Polonia l’equivalente di di 2,95. E nemmeno della Spagna, che pure cresce il triplo di noi. Madrid riconosce, dopo l’ultimo aumento deciso dal governo Sanchez, un minimo di 6,09. I nostri riferimenti non possono essere, dunque, che la Francia (10,03) o la Germania (9,19).
Il presidente francese Emmanuel Macron — anche in seguito alle infinite proteste dei gilet jaune — si è impegnato ad aumentare ancora il salario minimo. E la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ne ha fatto una bandiera, sottraendo l’idea ai suoi partner e rivali della Spd. Ed è infatti uno dei cavalli di battaglia del programma dello spitzenkandidat socialdemocratico alla Comissione europea, l’olandese Frans Timmermans. Tutto bene, dunque. Allora facciamo come francesi e tedeschi. E qui arriva la prima complicazione. Sì perché elevando per legge la retribuzione minima non si può pensare che non vi siano conseguenze sulla parte restante della piramide contrattuale. Chi è poco sopra i minimi non resterà a guardare. Né le stesse aziende, che dovranno reinventare del tutto la politica salariale, potranno far finta di nulla. Secondo Itinerari previdenziali, a cura di Claudio Negro, nel 2017 in Germania, il salario minimo è stato pari al 54 per cento della retribuzione media; in Francia al 70 per cento. La retribuzione minima oraria di 9 euro, proposta dal movimento Cinque Stelle, appare decisamente alta rispetto a quella mediana che nel nostro Paese è di 11,37 euro (2.033 mensili). Più ragionevole sarebbe scendere tra i 7 e gli 8. Altrimenti saremmo, come ha notato l’Ocse, ai vertici europei. Con una retribuzione mediana che resterebbe largamente al di sotto sia di Germania, sia di Francia. Una situazione insostenibile. Con problemi di equità (lo stesso livello minimo in tutte le aree del Paese con costi della vita molto diversi) e di proporzionalità rispetto alle mansioni svolte. Dunque non solo di costi aziendali che si moltiplicherebbero anche per le fasce salariali superiori. L’Istat stima un aggravio di 4,3 miliardi. La Confesercenti di 15. I consulenti del lavoro arrivano a 17.
Ma c’è di più. In contesti di maggiore ordine e legalità, la fissazione di un salario minimo troppo elevato non incoraggerebbe — come invece è presumibile avvenga in Italia — una fuga nell’attività in nero. O, se troppo basso, fenomeni di dumping sociale. I sindacati sono molto preoccupati. «La copertura di una seria contrattazione collettiva — spiega Tania Scacchetti, segretario confederale Cgil — individua già dei minimi salariali, sul cui importo si può discutere, ma che sono garantiti e inseriti in una dinamica negoziale». In Italia la giungla contrattuale però è fittissima. Sono in vigore 886 contratti collettivi, di cui solo 220 firmati da Cgil, Cisl e Uil. Andrea Garnero su Lavoce.info ha calcolato che i minimi contrattuali siano applicati — in linea con quello che avviene in altre economie — a circa il 10% della popolazione lavorativa. Il salario minimo andrebbe inquadrato nel solco dell’articolo 36 della Costituzione. Ovvero il «diritto del lavoratore ad avere una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa». «La soluzione — prosegue Scacchetti — è nella centralità della contrattazione nazionale da parte delle organizzazioni maggiormente rappresentative, le sole in grado di difendere veramente il rispetto dei minimi, la legalità del lavoro, i diritti dei singoli. E a contrastare soprattutto il sommerso».
La discussione sull’introduzione per legge di un minimo salariale (lordo se no i 9 euro diventerebbero 12) riapre il tema del rispetto di un altro articolo della Costituzione. Il ruolo delle rappresentanze sindacali non è mai stato regolato — anche e soprattutto per le loro resistenze — secondo lo spirito dell’articolo 39 (registrazione, statuti democratici). E dunque il valore erga omnes dei contratti nazionali è rimasto sempre un po’sospeso. Assicurato di fatto solo grazie all’applicazione del criterio delle «organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative». Il disegno di legge presentato, come prima firmataria a nome dei Cinque Stelle, dalla senatrice Nunzia Catalfo, non potrà non coinvolgere — almeno per tentare di superare le loro fondate perplessità — le parti sociali. Le trattative sono in corso in queste ore prima della definizione della proposta finale. Il salario minimo dovrà essere, ovviamente, valido per tutti. Con il paradosso che i sindacati si vedrebbero riconosciuta una prerogativa erga omnes, almeno nella parte economica dei contratti nazionali, grazie a una misura non richiesta da loro. Tommaso Nannicini è il primo firmatario della proposta sul «salario minimo di garanzia» del Partito democratico. «Meglio affidarsi — dice l’economista — a un meccanismo che dia valore legale agli accordi firmati tra le parti sociali più rappresentative, rispettando la loro libertà contrattuale. Imporre a tutti un limite monetario, oltre a favorire il nero o il finto lavoro autonomo, con camerieri o portieri a partita Iva, taglia fuori sindacati e imprese. In un contratto di lavoro, poi, ci sono anche tante altre tutele che rischiano di scomparire se si indebolisce la contrattazione collettiva». Anche il giurista Michele Tiraboschi vede nel salario minimo a 9 euro un insieme di rischi. «Prima di tutto quello dell’improvvisazione — dice il docente di diritto del Lavoro dell’Università di Modena e Reggio Emilia —. In altri Paesi sono stati fatti lunghi studi di fattibilità coinvolgendo aziende e rappresentanze sindacali. Non esistono solo gli ostacoli tecnici, ma bisogna tenere conto anche della cultura del tessuto sociale. Oggi con il reddito di cittadinanza che cosa conviene fare? Lavorare al minimo o starsene a casa? Un provvedimento confuso e dal sapore elettorale che creerà ancora più distorsioni. E incoraggerà quelle attività in nero che la soppressione dei voucher ha già gonfiato a dismisura». Il salario minimo di cittadinanza è uno slogan suggestivo. Una bandiera che si sventola bene. E un formidabile pretesto per quegli imprenditori che non vorranno riconoscere il resto dei diritti comtrattuali di un lavoratore. Diritti tutt’altro che erga omnes.