Uno dei motti preferiti dai sovranisti antieuro è in una lettera di John Maynard Keynes a Franklin Roosevelt a fine anni Trenta: «Il momento giusto per l’austerità al Tesoro è l’espansione, non la recessione». Chi sostiene l’utilità della spesa pubblica come stimolo all’economia dovrebbe tenere conto anche delle possibili controindicazioni: l’eventualità di tagli improvvisi per evitare il peggio. È quel che accadde a dicembre 2011 con l’arrivo del governo Monti, è quello che potrebbe ripetersi nel 2019. Lo scrive la Banca centrale europea nel suo ultimo bollettino di quest’anno: «La mancata costituzione di sufficienti margini di bilancio in Paesi ad alto debito aumenta il rischio che i governi debbano inasprire le politiche nei periodi di rallentamento». Che cosa accadrebbe se nei prossimi mesi – come prevedono in molti – l’economia mondiale entrasse in una nuova crisi? Accade più o meno ogni dieci anni, e i segnali che arrivano da Washington non promettono nulla di buono. Fra pochi giorni – a mezzanotte del 31 dicembre – Francoforte sospenderà il piano di acquisto di titoli pubblici che per quasi tre anni ha fornito ossigeno a Paesi come l’Italia. Che accadrà dopo? Quali sarebbero le conseguenze di un nuovo aumento del rischio sovrano dell’Italia sui mercati? E di quanto potrebbe aumentare il costo degli interessi sul debito pubblico? Solo raramente il bollettino indica con precisione i Paesi sotto osservazione. Questa è una di quelle rare volte: «È particolarmente preoccupante la circostanza che la più ampia deviazione rispetto agli impegni assunti con il patto di Stabilità si riscontri in Italia, un Paese in cui il rapporto fra debito e pil è notevolmente elevato». Dopo la decisione del governo di ridurre il deficit al due per cento del Pil, lo spread fra i Btp e Bund tedeschi si è stabilizzato attorno ai 250 punti. Ma fino a pochi giorni prima quel differenziale di rischio era sopra i 320: a differenza di quanto avvenuto altrove «negli ultimi tre mesi ha subito una notevole volatilità».
Difficile dire quanto ci sia ancora di espansivo in una Finanziaria che – lo sottolinea l’Ufficio parlamentare di bilancio – riduce gli investimenti e aumenta la pressione fiscale di quattro decimali nel 2019, di otto nel 2020, e senza tenere conto dei possibili aumenti Iva. Il punto più delicato sono le condizioni di finanza pubblica che lascerà nei prossimi mesi. Prendiamo proprio il caso delle imposte sui consumi: dopo le ultime modifiche fra il 2020 e il 2021 ne sono previste per 52 miliardi di euro. Non clausole , come prescritto dalle vecchie regole di contabilità, ma veri e propri aumenti che il governo dovrà cercare di evitare. Dove troverà le coperture necessarie? E soprattutto, in quale contesto lo farà? Francoforte invita a agganciare le cinture per almeno tre ragioni: «Le persistenti incertezze connesse ai fattori geopolitici, la minaccia del protezionismo, la vulnerabilità dei mercati», emergenti e non.
Donald Trump potrebbe presto vietare l’esportazione negli Stati Uniti delle tecnologie prodotte da due giganti della telefonia mobile cinese, Huawei e Zte. Che accadrebbe se una decisione del genere mandasse in crisi qualche anello debole dell’economia asiatica? Il Bollettino ricorda che rispetto a vent’anni fa i rapporti di forza fra Oriente e Occidente sono cambiati drasticamente: oggi le cosiddette economie «emergenti» valgono metà del prodotto mondiale, dunque sono in grado di contagiare il resto del mondo in tempi rapidissimi.
Rispetto a vent’anni fa molte di queste economie hanno valute più stabili e minori squilibri commerciali. Ma in molti casi la polvere è sotto al tappeto: «Grazie alle condizioni favorevoli dell’economia globale, negli ultimi dieci anni lo stock di debito denominato in dollari è cresciuto». Cosa accadrebbe – si chiedono a Francoforte – se ci fosse un rafforzamento inaspettato del dollaro? Quante volte si può ripetere uno scenario come quello turco? Di tutto questo – scrive in sostanza la Bce – il governo italiano si occupa poco o nulla. E non è una buona notizia per nessuno.