Il memorandum d’intesa che l’Italia si prepara a concludere con la Cina questo mese — dice Michele Geraci — è un documento «di tre o quattro pagine, non certo un trattato internazionale». Geraci, sottosegretario allo Sviluppo Economico e esponente della Lega, da otto mesi porta avanti per il governo i contatti con Pechino sull’adesione a quella che il presidente Xi Jinping ha chiamato la Via della Seta («Belt and Road Initiative», o Bri secondo il nome internazionale). Al punto in cui è arrivato il negoziato, sembra ormai difficile che salti la firma prevista durante la visita di Xi a Roma il 22 marzo.
La reazione dagli Stati Uniti è stata negativa, anche perché la Belt and Road Initiative si è dimostrata in questi anni uno strumento di espansione della presa economica e degli interessi politici di Pechino. Nelle scorse ore dal National Security Council della Casa Bianca di Donald Trump è arrivato un messaggio: «Sottoscrivere la Bri presta legittimità all’approccio predatorio della Cina agli investimenti e non porterà benefici al popolo italiano», ha dichiarato il Consiglio di sicurezza nazionale Usa. Anche in Francia, in Germania e da Bruxelles si segue l’accordo italo-cinese con circospezione.
Geraci respinge cerca di sedare i timori. «Il memorandum non contiene alcun obbligo da parte nostra e sui principi aderisce ai valori europei», dice. «È la Cina ad essersi avvicinata alle nostre posizioni, piuttosto che il contrario», afferma. Il testo preparato per la firma a Roma farà riferimento al presupposto di un «level playing field», un campo di gioco con regole uguali per tutti negli investimenti esteri; richiamerà poi un impegno alla trasparenza da parte di tutti gli investitori e conterrà la promessa a combattere il protezionismo nel commercio internazionale.
Di certo l’incrinatura con gli Stati Uniti si sta aprendo dopo lo strappo con Parigi del mese scorso e mentre l’amministrazione Trump cerca di disinnescare una guerra commerciale con la Cina. Geraci insiste su un punto: ha sempre tenuto informata l’ambasciata americana di Roma sull’evoluzione dell’accordo che stava maturando con Xi. «I nostri partner saranno più tranquilli quando vedranno il contenuto esatto del memorandum, con loro il dialogo è aperto è costante», sostiene il sottosegretario del ministro Luigi Di Maio.
Dovrebbe in parte dissipare le tensioni il fatto che l’accordo Roma-Pechino non conterrebbe alcuna clausola sull’uso di tecnologie cinesi nel 5G, il nuovo standard super-veloce di comunicazione mobile.
Geraci lo esclude, così come esclude che la firma prevista il 22 marzo renda l’Italia vulnerabile a azioni commerciali di gruppi statali di Pechino con finalità politiche. «Sono fra i massimi oppositori degli investimenti predatori — dice il sottosegretario —. Ogni proposta sarà vagliata, non c’è alcun rischio. L’Italia ha il Golden Power che permette di bloccare operazioni su attività strategiche contro l’interesse nazionale». L’obiettivo è però incrementare gli investimenti cinesi in Italia, che oggi valgono 22 miliardi di euro contro gli 80 in Gran Bretagna, i 40 in Svizzera e i 180 miliardi di dollari negli Stati Uniti.
Su un punto però alle riserve degli americani per ora non viene dato ascolto: non si fermano i contatti per portare investimenti cinesi nel porto di Trieste e allargarne la capacità. Geraci sostiene che progetti simili sono già arrivati a Malta, Bilbao, Zeebrugge, Anversa, in Egitto e in Israele senza che nessuno abbia protestato.
Restano le riserve nello stesso governo. Il sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi (anche lui leghista) ha detto che vuole vedere tutti i dettagli del patto, prima di decidere se sostenerlo. «Capisco i dubbi, perché la Farnesina e il ministero dell’Economia non sono stati parte della trattativa e vorranno vedere i dettagli — risponde Geraci —. Ma questa è una decisione di politica commerciale, non di politica estera. Cerchiamo di aumentare gli scambi e gli investimenti e di aiutare le nostre imprese a conquistare spazio in Cina, come fanno già i Paesi nostri concorrenti in Europa».