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La robotica? Viaggia a grandi passi verso la sua evoluzione, da industriale a sociale. I robot stanno uscendo dalle fabbriche per entrare nelle nostre case, nella nostra quotidianità, ad esempio nella cura e nell’assistenza delle persone. Maria Chiara Carrozza, ordinario di bioingegneria industriale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, già rettore dello stesso Ateneo ed ex Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, autrice del volume I robot e noi (il Mulino, 2017), è da pochi mesi il nuovo direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi. Originaria di Pisa, 52 anni, due figli, la professoressa si è occupata di bioingegneria della riabilitazione, mani artificiali, protesi cibernetiche, pelle artificiale sensorizzata… un’attività scientifica mirata all’utilizzo della bioingegneria e della biorobotica per aumentare l’autonomia delle persone e migliorarne la qualità della vita.
La Don Gnocchi sta investendo molto sull’innovazione e sulla robotica, al punto che solo chi non conosce la Fondazione potrebbe essere stupito dal fatto che l’abbiano scelta come nuovo Direttore Scientifico: professoressa, che impronta darà al suo incarico? Su cosa spingerà lei, cosa porterà di nuovo?
Prima di cosa porterò io di nuovo, dovrò osservare cosa già avviene in Fondazione e lavorare con la Fondazione: non sono qui per portare qualcosa di nuovo che penso io, ma per aiutare la Fondazione a progredire, ad espandere le sue attività di ricerca traslazionale, a valorizzare le risorse interne. Penso che il mio compito sia soprattutto potenziare la ricerca traslazionale e facilitarla nei vari settori, sia prettamente medici che tecnologici: ricerca traslazionale vuol dire portare nella pratica clinica i risultati della ricerca scientifica, attraverso protocolli di sperimentazione di nuove terapie o di nuove metodologie. Per farlo serve attivare collaborazioni con il mondo della ricerca e creare un ponte per valorizzare la potenzialità di sperimentazione clinica che la Don Gnocchi ha attraverso i suoi IRCSS, a beneficio dei pazienti della Don Gnocchi e poi di tutti, perché lo scopo degli IRCCS è proprio sperimentare per primi i risultati scientifici per poi traslarli in tutto il sistema sanitario nazionale. Gli IRCSS sono uno strumento italiano che non c’è in tutti i Paesi, è un modello bellissimo da valorizzare e potenziare.
Il technology transfer è proprio uno dei focus della Fondazione Don Gnocchi. Qualche mese fa, alla presentazione del joint-lab con l’IIT di Genova, l’accento fu messo sul fatto che ai malati non basta una tecnologia matura, serve una soluzione matura, che significa fra l’altro sostenibile, perché solo ciò che è sostenibile arriva all’uso clinico. L’obiettivo di Fondazione Don Gnocchi quindi è avere una tecnologia accessibile a tutti, low cost. Come si può realizzare questa sfida di rendere low cost la migliore tecnologia, in modo che sia accessibile ai più fragili e ai più deboli?
Il punto è questo. Io sono fermamente convinta che i pazienti più deboli, fragili, anche economicamente, sono una categoria di pazienti che grazie a una Fondazione come la Don Gnocchi e al sistema degli IRCCS può usufruire dei migliori avanzamenti della ricerca. Gli IRCCS fanno questo, attraverso la sperimentazione migliorano l’accessibilità dei pazienti alle terapie e alle tecnologie più avanzate. Si può fare perché la Don Gnocchi ha una copertura estesa sul territorio nazionale, partnership con istituti prestigiosi e una doppia vocazione, all’assistenza e alla ricerca. Un tassello importante che fa parte della mia cultura è il rapporto con le imprese, con il mondo che trasforma la ricerca in innovazione: quello che posso portare dalla mia storia è certamente il rapporto con le imprese, la volontà di valorizzare la proprietà intellettuale, il fatto che nostri medici possano costruire iniziative imprenditoriale, di creare delle startup. Avere startup italiane in questo settore è un alto valore sociale, perché rendono accessibili ai nostri pazienti la ricerca, perché valorizzano talenti italiani, perché creano lavoro.
I robot che entrano nella sanità, nella riabilitazione, nelle case, che diventano sempre più familiari, quotidiani, domestici… Intanto le chiedo perché questa non è fantascienza, ma uno degli scenari più prossimi, di descriverci un po’ questo futuro prossimo facendo particolare cenno a quali novità possiamo aspettarci “in casa Don Gnocchi”.
Esistono già una serie di robot commerciali, disponibili sul mercato, che migliorano ad esempio l’esito delle terapie riabilitative. La Fondazione Don Gnocchi ha da poco presentato gli esiti di una sperimentazione multicentrica su tutto territorio nazionale, su un campione statisticamente rilevante (questo spesso è un problema): la Fondazione ha fatto un grosso investimento, è una sperimentazione di grande impatto. Sono in corso anche altre due iniziative per la sperimentazione di robot non commercializzati: una con l’IIT per un robot antropomorfo che sia una sorta di assistente personale, che faccia interazione cognitiva con il paziente, che lo accompagni nella somministrazione della terapia, un’altra con la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa che studia la robotica indossabile, ad esempio esoscheletri per assistenza. Quindi abbiamo una ricerca traslazionale con robot commerciali e una ricerca sperimentale: la stessa strategia del “doppio modello” pensiamo di averla su altri settori, ad esempio i marcatori per le indagini diagnostiche sulla sclerosi multipla o altri protocolli di ricerca… Significa che prima si studiano nuove terapie e nuovi marcatori e poi si trasferiscono nei protocolli clinici, ovviamente dopo l’approvazione del Comitato Etico. Da me ci si deve aspettare una moltiplicazione di queste esperienze, non solo sulla robotica che mi è più familiare ma anche su altri strumenti come la diagnostica e in altri settori cari alla Fondazione come le malattie neurodegenerative o la riabilitazione cardiologica.
I robot saranno davvero strategici per gestire la cronicità? Avremo robot come companion per gli anziani?
Io penso che un robot assistente vada sperimentato e la sperimentazione è l’occasione per la ricerca di vedere insieme per quali compiti e per quali patologie è utile, ma sempre nell’ottica di essere strumento per migliorare l’assistenza per i pazienti cronici. Che poi “cronici” sono pazienti che noi definiamo tali, ma per la mia ottica di ricercatore anche un cronico può sempre migliorare.
Di queste novità, dei robot e dell’intelligenza artificiale, dobbiamo essere felici o avere paura?
Direi che la Don Gnocchi è proprio il luogo in cui non aver paura, perché qui l’utilizzo della robotica è solo davvero per il miglioramento della vita delle persone deboli, per aiutare le persone. Anche ieri ero a un incontro sull’Intelligenza Artificiale e su come cambierà il lavoro… Certamente in alcuni settori specifici ci sono prestazioni che i robot possono fare meglio, ma questo non significa che verrà soppiantato un mestiere in toto, forse alcune fasi del lavoro cambieranno, alcuni passi verranno resi automatici. Certamente, per fare un esempio, la professione del radiologo potrà cambiare, perché lo screening delle immagini sarà automatico, ma è chiaro che la responsabilità del radiologo continuerà ad esserci e ad essere necessaria. Pensare che l’automazione cancellerà i lavoratori è una semplificazione mediatica. Pensi a quel che è successo alla cardiologia: cento anni fa non era strumentale, oggi è uno dei settori in cui la strumentazione tecnologica è più utilizzata, oggi non puoi specializzarti in cardiologia senza conoscere gli strumenti… Lo stesso avverrà con l’intelligenza artificiale, che servirà ad esempio anche alle persone con disabilità, perché alcuni processi potranno essere affidati al machine learning.
Infatti la Don Gnocchi sottolinea sempre in maniera forte che i robot non sostituiscono i terapisti ma li valorizzano, estendendone le capacità…
L’obiettivo della Fondazione è sempre “la persona al centro”. Non intendiamo solo il paziente ma anche il lavoratore, è importante che il terpista si senta parte del miglioramento, sappia di essere una persona che utilizza alcuni strumenti per migliorare il proprio lavoro. Introdurre i robot non ha la finalità di diminuire numero di terapisti, il terapista non può essere sostituito da una macchina, semmai adiuvato.
La risoluzione del Parlamento europeo del febbraio 2017, “Norme di diritto civile sulla robotica”, dice che i robot possono diventare dei “companion” e indica la necessità di porre «un’attenzione particolare alla possibilità che nasca un attaccamento emotivo tra gli uomini e i robot, in particolare per i gruppi vulnerabili (bambini, anziani e disabili)». Che ne pensa?
Questo è un tema molto controverso, ad esempio in Giappone vedono questo attaccamento come una cosa positiva, da favorire e sviluppare perché migliora la somministrazione della terapia cognitiva. Io penso che questo tema sia molto legato all’etica di chi utilizza e sviluppa i robot, quindi molto dipende dalla scientificità ed eticità del protocollo di sperimentazione. Io personalmente sono d’accordo ad avere tutte le cautele attorno a un ipotetico legame affettivo fra la persona e la macchina, penso che non vada incoraggiato. Chi utilizza un robot deve essere sempre emotivamente e cognitivamente consapevole che sta utilizzando una macchina, non sta interagendo con qualcosa di simile a un essere vivente, questo deve essere molto ben chiaro, deve essere speficato nel consenso informato ad esempio. L’utilizzo di robot nella terapia neuroriabilitativa da questo punto di vista non lo vedo come particolarmente problematico, siamo già abituati ad usare tante macchine in palestra… È un rischio che vedo più nell’assistenza personale, per un robot che assiste o somministra terapie di tipo cognitivo, non fisico: lì cu può essere una forma di dipendenza che va monitorata e certamente non incoraggiata. Purtroppo ci sono già situazioni a rischio, che trascuriamo: qui le parlo forse più da genitore, ma esistono videogiochi online che sono molto pericolosi da questo punto di vista, perché inducono forme di dipendenza, ad esempio ti penalizzano se non giochi per molte ore, c’è una induzione voluta della dipendenza. Ecco, magari abbiamo paura dei robot per la riabilitazione e poi lasciamo che i nostri figli giochino con queste cose, senza avere alcuna preoccupazione.
*Vita, 8 febbraio 2018