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Professore ma chi gliel’ha fatto fare? Perché uno studioso che avrebbe potuto starsene rintanato tranquillo nel suo laboratorio decide di scendere nell’arena dei social, di diventare il più famoso sì vax d’Italia, di esporre la faccia a badilate di fango, di mettersi nelle condizioni di dover scappare dal mare insieme alla propria famiglia per le dichiarazioni di qualche esagitato che l’avrebbe visto bene sott’acqua… per sempre?
«Non si preoccupi, l’ultimo messaggio, che ho ricevuto cinque minuti fa, mi ha comunicato che sono stato ucciso dalle Brigate Rosse per cui non vale più la pena stare in ansia per me. Comunque, a parte gli scherzi, l’ha detto lei perché l’ho fatto. Per mia figlia, che ha sette anni, e che non voglio cresca in un mondo in cui suo padre non ha fatto quanto gli era possibile per combattere l’oceano di bugie che vengono dette su cose che avranno anche un effetto diretto sulla sua salute. Lasciar circolare tutte le fandonie che si dicono sui vaccini vuol dire permettere che vengano minate le basi del benessere di tutti, e in particolare della generazione dei nostri figli».
I figli, appunto: sono quelli che però vogliono difendere anche i no vax. Genitori contro genitori. Libertà di scelta contro obbligo. C’è chi ha scritto a 7 che ci sono medici con esperienza trentennale che possono dimostrare come stanno davvero le cose, con dati aggiornati, e farci capire quando è necessario usare i vaccini e come affrontare i virus per renderci autonomi da qualunque coercizione.
«Chi fa da trent’anni il medico e dice queste cose racconta bugie ed è preoccupante che possa essere ancora al suo posto. È come se lasciassimo fare il pompiere a chi è convinto che il fuoco si spegne con il kerosene. Chi fa queste affermazioni molto spesso ha un tornaconto: dietro a “i vaccini sono contaminati” c’è il “venga che il suo bambino glielo depuro io”. Oltretutto è molto facile spaventare le persone. Se in un teatro grido che c’è una bomba scappano tutti ed è difficile calmarli. La stessa cosa fanno gli antivaccinisti: diffondono timori che è complicato arginare».
Insomma, conflitti d’interesse. Però accusano anche lei di averne.
«Sì, è vero, ce li ho, ma al contrario. Io ho tutto l’interesse a dire che i vaccini non funzionano perché il mio lavoro è trovare nuovi farmaci che possano essere usati al loro posto, in particolare contro i virus».
Un’altra accusa che le fanno, anche alcuni suoi colleghi, è di essere arrogante, specie sui social.
«È arroganza dire che io dico quello che dico dopo aver avuto l’umiltà di studiare l’argomento per 35 anni e che quindi non penso di dover discutere sullo stesso piano con qualcuno che ha letto una decina di articoli su internet? Sarei arrogante se partecipassi a un forum sul cricket, di cui non conosco nemmeno le regole. Nelle trasmissioni sportive è ammesso a dibattere di calcio, sullo stesso piano di allenatori, ex calciatori o giornalisti specializzati, qualcuno che non sa nemmeno che cos’è il fuorigioco? Se sì, come pensa che verrebbe considerato da chi guarda la trasmissione? Perché questo non accade quando si parla di scienza?»
Ecco la parola magica: scienza. C’è chi la ascrive alla compagnia di quelli che hanno trasformato la scienza in un nuovo dio. Per colpa vostra chi contesta le affermazioni della scienza ora viene paragonato a un blasfemo. Chi lo dice sottolinea come il progresso scientifico sia in realtà fatto di scoperte destinate a essere continuamente smentite, quindi nulla di più lontano da una verità assoluta.
«La scienza è il contrario del dogma. Diceva Einstein: “Tutta la nostra scienza al confronto con la verità è primitiva e infantile, eppure è la cosa più preziosa che abbiamo”. È vero che la scienza va avanti per “tentativi ed errori”. Se oggi una persona che ha un infarto può essere salvata è grazie ai progressi scientifici. Certo, fra cento anni quello che facciamo oggi potrà essere considerato inadeguato, ma non possiamo aspettare un secolo di progressi per curare un infarto oggi. Fra l’altro a ripagarmi del mio impegno pubblico sono soprattutto giovani che mi danno l’impressione non di adorare la scienza, cosa che mi guardo bene dall’invitare a fare, ma di adorare invece lo studio. Questo mi fa sperare che il nostro Paese non sia perduto».
Sì, ma oggi ci potrebbe essere qualcuno non compreso, come lo fu Galileo, che dice cose giuste e che la comunità scientifica tiene invece “fuori dal giro”.
«Non basta richiamarsi a Galileo, che ha detto il contrario di tutti. Non è sufficiente essere contro tutti: per essere come Galileo bisogna pure avere ragione, come ha dimostrato di averla Galileo. Mi si accusa spesso di sbandierare che la scienza non è democratica, ma la mia affermazione è stata fraintesa. La scienza è altamente democratica, perché ha al suo interno regole di controllo generali che non consentono a chi racconta fandonie di farla franca per molto tempo. Non è democratica solo nel senso che non dà ragione, per un frainteso principio di uguaglianza e libertà, a chi sostiene che il sughero affonda. Finora si è sempre visto che il sughero galleggia, e, finché il preteso Galileo di turno non dimostrerà il contrario, il mondo scientifico, democraticamente, non accetterà la sua tesi. Poi, guardando all’Italia in particolare, c’è da dire che viviamo in uno Stato che ha oscillato a lungo fra scienza e superstizione. Negli ultimi anni lo Stato ha esitato a mettersi dalla parte della scienza e questo ha contribuito a creare confusione».
A proposito di scienza: perché ha deciso di fare il medico?
«Mi ha sempre appassionato la scienza e ho pensato che la medicina fosse il campo più in espansione, in cui le nuove scoperte avrebbero potuto avere le maggiori applicazioni. E credo di averci visto giusto perché mi sono dedicato alle biotecnologie, che hanno prodotto molto e si può dire che oggi tanti anni di vita in più sono stati ottenuti proprio grazie agli studi in questo campo. L’interesse per la virologia in particolare mi è venuto un giorno in cui chiesi a un professore di immunologia perché il sistema immunitario è così tanto diverso da una persona all’altra. Lui mi rispose: “Perché così non può arrivare un virus che ci ammazza tutti”. Trovai la cosa affascinante e decisi di dedicarmi ai virus e al modo in cui il nostro organismo li riconosce».
Suo padre era medico condotto: non l’ha influenzata in questo senso?
«No, infatti non ho fatto il clinico. Mio padre fu però decisivo nel distogliermi dall’altra carriera che mi tentava, quella nella musica. Volevo fare il conservatorio».
Quindi un musicista mancato.
«No, per fortuna: non avevo talento, ma allora non lo capivo, posseduto dalla passione. Mio padre mi ha aiutato a capirlo».
Passione che è rimasta? La coltiva ancora?
«Certo, in casa mia ci sono migliaia di dischi, appena posso suono il pianoforte e vado a concerti, soprattutto di classica e di jazz».
Torniamo alla carriera scientifica: lei è uno dei “cervelli di ritorno”.
«Parole grosse, comunque sì. Mi sono laureato all’Università Cattolica di Roma con una tesi sugli anticorpi monoclonali umani, di cui mi sono poi occupato per tutta la vita. La tesi l’ho fatta all’University of Pennsylvania con Carlo Maria Croce, un grande oncologo. In seguito sono stato diversi anni negli Stati Uniti dove ho lavorato in altre università, soprattutto in California, a La Jolla, prima alla University of California di San Diego poi allo Scripps Institute. Quindi sono tornato in Italia nel 1994, sempre alla Cattolica di Roma, per approdare poi ad Ancona e infine al San Raffaele di Milano nel 2004, passando per qualche disavventura che si è trasformata in una fortuna, come non di rado accade nella vita. Nel mio caso la sfortuna, o se si vuole l’ingiustizia, è stata essere bocciato in concorsi che forse avrei dovuto vincere. Ma se li avessi vinti non sarei dove sono ora. Una lezione che quando posso ricordo ai giovani che studiano».
Quale sarebbe la lezione che può dare un concorso perso ingiustamente?
«L’insegnamento è che non è tutto rose e fiori. Io sono tornato e sono contento di quello che faccio e di dove sono arrivato, ma la strada è stata faticosa e difficile, come lo è per quasi tutti. Però non ho mollato, convinto che la mia volontà e la voglia di lavorare avrebbero avuto ragione degli ostacoli. Tanti bravi giovani si scoraggiano. Ma vorrei dire loro che ho visto alcune persone non meritevoli andare avanti, ma non ho mai visto un meritevole che non abbia mollato che non ce l’abbia fatta. Però non deve mollare e molti, invece, mollano, purtroppo».
Sua moglie l’ha seguita nei suoi itinerari per il mondo?
«Direi di no perché siamo sposati da dieci anni e l’ho trovata in Italia, proprio da dove ero partito. Io sono nato a Pesaro ma la mia famiglia si è trasferita in una cittadina della provincia, Fermignano, quando avevo sette anni. È lì che, anni dopo il mio ritorno dagli Stati Uniti, ho incontrato mia moglie, che non conoscevo quando sono partito perché ha 15 anni meno di me. Fra l’altro il liceo l’ho fatto a Urbino».
Liceo classico, vero? Lei ne parla spesso.
«Sì, per me è stato molto importante. Mi ha insegnato a pensare. Penso che quelli classici siano studi che formano il nostro essere in modo fondamentale. Viviamo in un mondo in cui si privilegia la scuola del fare, ma le cose vanno talmente velocemente che è improbabile che ciò che si fa oggi si faccia ancora fra dieci anni. Bisognerebbe privilegiare la scuola del capire».
A risentirci professore, vado a leggere il suo ultimo post su Facebook.
*Sette, 7 settembre 2018