A causa della minaccia incombente di una catena di guerre commerciali e delle previsioni su un rallentamento della spinta espansiva dell’economia mondiale, è essenziale tener ben presente quale grave pericolo stiano correndo tante nostre Pmi. Sia perché quella “fanteria dei piccoli”, come era stata definita negli anni Ottanta la vasta schiera di minuscole imprese (messe su per lo più da ex operai, artigiani, esercenti o mezzadri, grazie al loro “saper fare” e a uno spiccato talento) ha dato luogo a una sorta di “rivoluzione silenziosa” in diverse aeree, come quelle del Nord-Est e del Centro-Italia, rimaste per lungo tempo ai margini dello sviluppo industriale e da un processo di mobilità sociale. Sia perché, da allora, questa componente del mondo economico, cresciuta man mano di spessore ed estesasi ad alcune località del Mezzogiorno, è divenuta il nerbo e il cuore del nostro sistema produttivo.
D’altra parte, per comprendere quanta importanza le Pmi abbiano avuto e continuino tuttora ad avere, vanno considerate le singolari capacità reattive, di flessibilità e adattamento, ai cambiamenti di scenario e di prospettiva, che esse hanno fin qui dimostrato nel corso del tempo.
È stata infatti una galassia di minuscole aziende che, dopo aver fatto da paraurti alle conseguenze di due pesanti shock petroliferi, ha agito da “valvola di sicurezza” (in seguito al passaggio dei principali complessi industriali da una rigida e verticale organizzazione di tipo fordista a quella più agile e orizzontale di matrice giapponese) nel garantire una sostanziale tenuta dei livelli occupazionali. Inoltre negli anni Novanta, durante la corsa affannosa dei nostri governi per conseguire l’annessione dell’Italia all’Unione economica e monetaria europea (concomitante coll’epilogo del “capitalismo di relazione”), le Pmi hanno, da un lato, posto le basi per lo sviluppo di alcune filiere produttive integrate nell’ambito di nuovi distretti manifatturieri e, dall’altro, hanno generato un drappello di “multinazionali tascabili”, affermatesi progressivamente grazie al loro dinamismo in vari circuiti di mercato esteri.
Dagli inizi del Duemila le Pmi hanno poi affrontato un tornante decisivo:quello di superare il modello del “capitalismo molecolare” originario, per trasformarsi, da un esercito di “artieri operosi”, in uno stuolo di aziende impegnate ad acquisire una struttura più robusta e nuove competenze che dessero loro modo di realizzare determinati prodotti a maggior valore aggiunto e di stabilire un’interconnessione fra locale e globale. Senonché le dure conseguenze della Grande Crisi esplosa nel 2008 le costrinse a puntare i piedi per sopravvivere alla bufera e a riannodare faticosamente, nel corso di una tormentata fase recessiva, i fili di una crescita imperniata su innovazioni di processo e di prodotto.
D’altronde lo Small Business Act, aggiornato nel febbraio 2012 dalla Commissione europea (per assecondare l’adozione di politiche fiscali volte a incoraggiare il reinvestimento degli utili in azienda e a tutelare la liquidità delle imprese monitorando l’impatto di “Basilea 3”, nonché a sviluppare i contratti di rete), venne recepito in Italia soltanto in parte dall’amministrazione pubblica, che continuava oltretutto a ritardare il saldo di miliardi di debiti nei riguardi delle piccole-medie imprese alle prese con le ristrettezze del credito bancario. Né questa era l’unica anomalia a penalizzare le loro risorse e potenzialità competitive, in quanto esse avevano a che fare anche con un’eccessiva pressione fiscale, una congerie di pastoie burocratiche e un coacervo di endemiche disfunzioni da parte di vari Enti locali, quando non con la persistenza di vetusti pregiudizi ideologici. Anche per questi motivi numerose imprese si trovano, come sappiamo, ad arrancare ancora in mezzo al guado. Ma altre hanno cominciato a impegnarsi sulla nuova frontiera della produzione 4.0 e spostato sempre più il loro baricentro dal mercato domestico verso l’export, all’insegna di adeguate strategie di marketing.
Oggi la nostra industria deve vedersela non solo con la sempre più agguerrita concorrenza delle potenze asiatiche emergenti anche nel campo di produzioni d’alta gamma ma pure con la reviviscenza di tendenze protezionistiche dirimenti per alcuni settori eccellenti del made in Italy.
Dalla vitalità delle Pmi e dalla loro capacità di rimettersi ogni volta in gioco dipendono quindi, per il nostro Paese, sia la prospettiva di un rilancio economico, in sintonia d’intenti e obiettivi con le democrazie europee più avanzate, sia la possibilità di realizzare un equo processo d’inclusione sociale tale da ridurre divari territoriali e intergenerazionali.