A quasi cinque settimane dalle elezioni più incerte della storia repubblicana, lo spread fra titoli di Stato tedeschi e italiani ieri sera era esattamente dove si trovava il venerdì sera prima del voto. Quel differenziale aveva chiuso a 129 punti allora ed era a 129 punti ieri.
Una delle ragioni di tanta stabilità finanziaria nel cuore dell’instabilità politica sta nel comportamento delle famiglie e delle imprese: da almeno un anno comprano e investono di più. I consumi delle prime, che generano circa il 60% del Prodotto interno lordo, sono aumentati dell’1,2% fra fine 2016 e fine 2017; gli investimenti, che valgono circa il 18% del Pil, sono saliti del 4,4%. Più che il limitato contributo netto dell’export, questi due fattori sono alla base di una ripresa che l’anno scorso ha sorpreso molti.
Gli investitori nei titoli di Stato non hanno perso la calma anche per questo: se l’economia cresce, aumentano le entrate e il governo è in grado di sostenere o anche far scendere il debito. Ciò che però inizia a essere meno chiaro è quanto forte o fragile sia la ripresa o in che misura la difficoltà degli italiani nel leggere le intenzioni dei partiti inizi a intaccare la fiducia. Eppure è proprio questa che serve alle famiglie per decidere di comprare un’auto nuova o a un’impresa per ordinare nuovi macchinari più efficienti.
I dati non segnalano un ritorno in recessione, ma giustificano qualche dubbio: l’economia inizia a sembrare più fragile di quanto non sia stata per più di un anno. Martedì l’Istat, l’istituto statistico, ha fatto sapere che a febbraio la produzione industriale è diminuita (-0,5%) su gennaio per il secondo mese di seguito: i livelli sono sempre superiori a quelli di un anno fa, ma la contrazione avrebbe potuto essere molto più seria se l’aumento del prezzo del petrolio non avesse sostenuto il settore dell’energia.
Del resto questo non è il solo dato concreto che riserva qualche delusione.Il numero degli occupati registrato dall’Istat per febbraio è fermo appena sopra i 23 milioni di persone: appena sotto i livelli dell’agosto scorso, da quando non ha più fatto progressi.
Poi ci sono i segnali psicologici e quasi tutti vanno nella stessa direzione:l’effetto del voto ha indebolito negli italiani la fiducia nel prendere decisioni di spesa. Il clima nelle imprese in marzo è sceso ai minimi da agosto, l’indice dei sondaggi fra i manager degli acquisti nel manifatturiero è al punto più basso da luglio, mentre è sceso bruscamente anche quello dei servizi. Sempre a marzo è finito in negativo anche il valore del «sentimento economico» Zew per l’Italia, per la prima volta da oltre un anno.
Niente di tutto questo dice che una recessione è alle porte. Molti dati sugli umori nell’economia, benché meno buoni, restano su livelli tipici di una fase di crescita. E a marzo la fiducia delle famiglie fotografata dall’Istat è salita ancora. Ma un tasso di crescita accettabile è così importante per la stabilità dell’Italia, che gli osservatori sono ipersensibili ai segnali di rallentamento. Anche perché qualcuno arriva dal resto d’Europa: Sentix, un indice del «sentiment» delle imprese dell’area euro, è caduto bruscamente in aprile anche per i venti di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina. In Germania a febbraio sono calate su gennaio sia le vendite al dettaglio che la produzione manifatturiera, mentre gli ordini all’industria hanno deluso. E le Borse hanno avuto un brutto primo trimestre del 2018.
Potrebbe essere un vuoto d’aria sul percorso di un’espansione globale che ha ancora carburante. Ma è un motivo di più, in Italia, per accorciare quanto possibile i tempi dell’incertezza post-elettorale.