Il protagonismo dell’economia nordista è stata la risposta che il non-sistema Italia aveva dato alla Grande Crisi iniziata nel 2008. I distretti si erano trasformati in moderne filiere, la geografia dello sviluppo era stata riscritta con l’emergere del nuovo triangolo industriale Treviso-Varese-Bologna, eravamo diventati un Paese trainato dalle esportazioni e infine Milano aveva riscoperto le sue ambizioni di città globale tanto da poter essere accomunata nelle comparazioni internazionali a Parigi, Monaco, Barcellona e persino a Londra o New York. Da un punto di vista sociologico il Nord era riuscito a mantenere il suo vecchio profilo identitario e la cultura comunitaria ma era stato capace di rimodularli in base ai dettami dell’economia moderna. L’autostrada A4 era diventata il simbolo di una macro-regione senza soluzioni di continuità territoriale, l’alta velocità aveva avvicinato le città e cambiato il mercato del lavoro ma soprattutto le nuove élite della conoscenza avevano saputo inserirsi nei grandi network della reputazione internazionale.
Riavvolgendo il nastro non penso di cedere alla nostalgia di un’età dell’oro. Anzi, a tanti era capitato di sottolineare come quel non-sistema nascondesse parecchia polvere sotto il tappeto. Troppi giovani talenti fuggivano all’estero con la sensazione di non avere chance in patria, le multinazionali tascabili non riuscivano a diventare poli aggreganti e ad ogni fusione intravedevamo la supremazia dello straniero, la mappa della trasformazione digitale assomigliava alla classica pelle a macchia di leopardo, il terziario era poco avanzato e tanto low cost e, infine, tra città e contado si era aperta una faglia riscontrabile ad ogni prova elettorale. Ma fatta la somma dei vizi e delle virtù si poteva dire che il Nord si era preso il compito di garantire il nostro posto nel mondo. E ciò nonostante dovesse fare i conti con una contraddizione ancora più stridente di quelle elencate finora. A fronte di un’economia di territorio che si apriva ai flussi internazionali si era palesata infatti una politica nazionale che si chiudeva, che nelle correnti maggioritarie non solo non assecondava gli sforzi del Nord ma ne combatteva lo spirito proponendo soluzioni autarchiche o innalzando il cartello dei No-a-tutto. In un’unica occasione il Nord aveva saputo sfidare in piazza la politica e aveva segnato un punto: il caso Tav. Troppo poco.
Oggi il Covid ha terremotato questo scenario e ingigantito i problemi al punto che psicologicamente vorremmo tornare alla situazione ante quo , di cui pur avevamo messo in mostra ritardi e contraddizioni. La fenomenologia è impietosa: ci parla di Regioni contenitori di poteri amministrativi ma non soggetti di razionalità decisionale, ci parla di una Milano rimasta sotto scacco per settimane senza riuscire a mobilitare la sua forza per fornire ai cittadini tamponi e tracciamenti. Ma soprattutto è impietosa perché le cronache ci segnalano l’interruzione di tutti quei fattori di flusso e di mobilità che avevano animato la riscossa del Nord. Nel frattempo le tendenze della politica non autorizzano grandi illusioni: nell’emergenza è apparso chiaro come l’Italia soffra di un deficit di vocazioni per cui i migliori si guardano bene dall’entrare in politica lasciando campo libero alle terze e quarte scelte. Se la Grande Crisi aveva determinato l’affermazione del movimento grillino grazie alla sua capacità di incanalare il rancore nelle urne, oggi non sappiamo ancora cosa ci attende. Basta poi alzare gli occhi oltre i confini per constatare come persino i giornali dell’establishment mettano sul banco degli imputati la globalizzazione: c’è chi pensa a un atterraggio morbido grazie a una regionalizzazione per macro-aree, e chi invece teme che il mondo aperto venga mangiato dall’aspra competizione tra i due capitalismi politici di Washington e Pechino. In questo scenario nel quale siamo chiamati tutti a dare continue prove di spirito di adattamento, dove il frequent flyer di ieri si è trasformato in uomo Zoom, noi italiani ci muoviamo con paura e sospetto. Sappiamo che tutti i grandi Paesi si stanno leccando le ferite ma abbiamo la netta sensazione che quando gli altri ripartiranno noi resteremo a terra. E d’altronde non è un caso che tutte le previsioni sulla caduta del Pil nel 2020 ci vedano quasi sempre nella posizione di fanalino di coda.
Ma proprio perché ritorna prepotentemente in discussione il nostro posto del mondo non possiamo che riprendere a guardare al Nord, che resta comunque una delle aree forti d’Europa. Secondo una ricerca, tuttora in corso, condotta su 25 città globali dalla Fondazione Mattei in collaborazione con i maggiori specialisti di politica urbana, si andrà verso una combinazione di luoghi e di flussi, i primi saranno costretti a riorganizzarsi e i secondi saranno per buona parte delegati alla Rete. Avremo catene di produzione più corte, turismo di breve raggio, più lavoro in remoto, maggiore responsabilizzazione della governance locale. Un modello misto in cui si mescoleranno in maniera inedita i territori e Internet, due culture che in passato avevamo descritto in totale contrapposizione e oggi troviamo alleate. È in questo contesto in cui i luoghi torneranno a contare che il Nord è chiamato a giocare le sue carte e Milano a riprendere la sua corsa. E per farlo dovranno adottare una costante: progettando il nuovo dovranno avere in mente di chiudere la faglia tra le città e la campagna, tra le Ztl e le periferie. Che poi altro non è che una metafora di quei rapporti tra élite e popolo che alla fine determineranno, non solo da noi, gli equilibri della politica nazionale.