Siamo nell’incertezza. Diventa attuale per ognuno di noi mettere in comune dubbi e saperi. Vedo anche inviti a schierarci come se avessimo certezze. Da una parte i sostenitori della rete che ci immunizza, dall’altra i cantori della fabbrichetta che ci salva con il saper fare. In mezzo chi, come Realacci, rilancia l’appello dell’incontro di Assisi per un capitalismo che incorpori sostenibilità e coesione sociale. Per cercar di capire il “non ancora” e il ragionare sulla fase 2, mi son messo a rileggere Becattini e De Rita. Due antropologi del capitalismo di territorio: dal sommerso ai capannoni ai distretti alle filiere e alle piattaforme che vorremmo far rivolare nel mondo per competere. Rileggere il “com’era” serve a capire il “come sarà”. Aiuta a disegnare mappe più da antropologi dello spirito del capitalismo che da economisti in questi tempi di vita nuda le cui regole sono scritte dalla cura dei corpi che producono merci e servizi, ma anche contagio. Becattini a proposito di corpi e distretti, titolava: «Intimo è bello, ovvero verso la coralità produttiva dei luoghi», sostenendo che non è questione di piccolo è bello, ma di intimità dei nessi produttivi. De Rita scrive che occorre andare: «Rasoterra e dappertutto» per capire il «localismo poliarchico» del nostro tessuto produttivo. Intimo e dappertutto sono parole negate in tempi di distanziamento sociale. Sono pratiche che negano il riprodurre nelle imprese dell’Italia fatta a mano (Rampello) la trasmissione dei saperi contestuali “bocca-orecchio” in tempi di “giusta distanza”. Ci aiuteranno i saperi formali incorporati nelle stampanti 3D (Micelli) in industrie 4.0 nello smart working della rete che fa community dei saperi. Dovremmo imparare dal sociale e dal volontariato e inserire nelle imprese digital angel che si mettono in mezzo tra analogico e digitale. Qui siamo e qui ci tocca saltare. Per spalmare e tessere nuovi saperi, nuove forme dei lavori nei tanti localismi poliarchici delle fabbriche a cielo aperto della pedemontana lombarda e veneta, della via Emilia che chiedono di ripartire ma sono i territori più segnati dalla geografia del male. È il quarto capitalismo dell’asse Treviso-Bologna-Milano che ha espresso il nuovo presidente di Confindustria ed è il territorio dove, più che altrove, è messa alla prova quella che Calabrò ha definito «l’impresa riformista». Qui chiamata alla sfida di un umanesimo industriale in grado di incorporare per ripartire innovazione sia nella tecnica sia nella tutela dei corpi. Perché in tempi di pandemia non è più solo un immettere la giusta distanza nella catena del valore dentro la fabbrica, ma anche il ridisegnare la ragnatela del valore.
A tal proposito dovrebbe far riflettere la metamorfosi di due luoghi simbolo: le Ogr a Torino e la Fiera a Milano trasformati, nell’emergenza, in luoghi a supporto della cura. Metamorfosi non solo urbanistiche che interrogano anche le città distretto come Bergamo, Brescia, Cuneo, Piacenza, Sassuolo, Parma, Padova-Treviso, Firenze-Prato, Rimini-Pesaro… Sarà una eterotopia, ma ridisegnare la ripartenza significa anche avere un’idea del come sarà la fabbrica diffusa delle piattaforme territoriali in rapporto alla conoscenza globale in rete a base urbana della logistica e dei servizi che la innervano e avere un’idea, che è mancata, del rapporto con la medicina di territorio nel nostro capitalismo di territorio. La ripartenza può essere un dramma se lo faremo solo con la testa rivolta al “come eravamo”, se non volgiamo lo sguardo al “come sarà”. Certo un’eterotopia, ma se non ora quando? Già la crisi climatica aveva battuto un colpo, Covid-19 ha suonato la campana. E la campana suona anche per le parti sociali, le rappresentanze delle imprese e dei lavoratori. Ho preso da un’intervista a Papa Francesco l’immagine di Enea che si prende sulle spalle Anchise per andare nel “non ancora”, immaginando le rappresentanze che si caricano sulle spalle il vecchio modello di sviluppo per andare oltre. Vale per il quarto capitalismo delle medie imprese se vogliamo che ce ne sia un quinto; per il sindacato con sulle spalle il lavoro che si è fatto moltitudine dei lavori; per le filiere agroalimentari con gli invisibili migranti diventati visibili e necessari…
Anche qui non bastano né le relazioni industriali né gli enti bilaterali del “come eravamo”, occorre un’eterotopia della rappresentanza, perché nessuno si salva da solo. Se sollevo lo sguardo dal territorio e guardo nel cielo della politica vi ritrovo, anche per la ripartenza, il dilemma della governance: quello che rimanda alla piramide statale o al tempio greco, tante colonne con un frontone che tutto tiene. Visto dai territori dai localismi poliarchici parrebbe logico partire dalle piattaforme, tessere le colonne regionali per dialogare con il frontone statuale che tutto tiene e coordina per andare poi in Europa e nel mondo che verrà… Più che un’eterotopia mi pare, dato lo stato del dibattito, un’utopia. Anche queste servono di questi tempi.