Ma ci voleva proprio un virus dalle infime dimensioni di qualche milionesimo di millimetro per farci sbattere il naso su un’evidenza grande quanto un pianeta, e cioè che così non va, non può durare? E che è tutto da rifare, come sosteneva quel mito di Gino Bartali? Chi ancora non se ne fosse reso conto, farà bene a consultare un vero e proprio breviario per il post-Covid: “Il mondo che (ri)nasce – la nostra vita dopo la pandemia”. L’idea è di Andrea Ferrazzi, direttore generale di Confindustria Belluno, che ha coinvolto nell’iniziativa un gruppo multidisciplinare di esperti per chiedere loro un contributo di idee e di stimoli sulla vera fase due prossima ventura del coronavirus: quando, una volta sistemata la salute fisica degli individui con vaccini e farmaci ad hoc, ci sarà da risanare un’intera collettività partendo dal presupposto che occorrerà inventarsi nuove risposte. E non solo perché quelle vecchie sono state spazzate via dalla pandemia, ma anche e soprattutto perché non funzionavano già da prima.Mettendoci tutti in stand-by, Covid ci ha consentito di accorgerci che stavamo vivendo in quella che Ferrazzi definisce “un’età della penombra”, citando un pamphlet di due scienziati americani scritto sei anni fa, quindi molto prima dell’avvento del virus. Lo choc è stato tanto più forte in quanto nessun Paese al mondo, mica solo l’Italia, era preparato a tutto questo. Ma ancor più traumatico sarà il dopo perché, come avverte il curatore del libro, volenti o nolenti saremo obbligati a tener conto dei limiti della Terra in cui viviamo, e dovremo metter mano a uno stile di vita “non più basato sulla crescita infinita dei consumi, sulla distruzione ecologica e sull’ingiustizia sociale”. In qualche modo ce ne stavamo comunque rendendo conto: perché, come spiega nel testo un guru della sociologia del valore di Franco Ferrarotti, eravamo (siamo) un po’ tutti vittime di un diffuso “malessere del benessere”, membri di una società gravida di contraddizioni, iperconnessa ma piena di solitudine, in cui “si sa tutto di tutti, ma non importa niente di nessuno”.Sono state messe in discussione, anzi rivoluzionate, tante nostre categorie cui ci eravamo ancorati, a cominciare dal confine che corre tra reale e virtuale, fin qui appannato e oggi di colpo nitido, sotto la spinta di una dilagante paura e del contatto a tu per tu con una morte che avevamo narcotizzato, aggiunge un altro sociologo di valore quale Francesco Morace; e questo ci aiuterà a riscoprire la bellezza del bene comune. Ma ci sono e ci saranno risvolti anche estremamente pratici, segnalano gli economisti Stefano Zamagni e Vera Negri Zamagni, particolarmente attenti alla dimensione del sociale: se in una prima fase la spesa pubblica dovrà fronteggiare la povertà dilagante, il problema vero sarà promuovere il lavoro concentrandosi in particolare sugli investimenti pubblici; e conterà soprattutto la capacità di spenderli, ambito in cui l’Italia ha dato e dà tanti pessimi esempi. Il guaio è che il nostro Paese ben prima del virus “era arrivato al punto di un giocatore di poker ormai esausto per i troppi bluff”, come denuncia Giuseppe Berta, storico dell’industria e del lavoro, e che “gli indicatori principali della vita economica sono decisamente peggiorati durante tutto il 2019”; con la conseguenza che il virus ha messo a nudo la condizione precaria di due settori-chiave quali la sanità e la scuola.Ma al di là dei singoli aspetti, c’è una questione trasversale che ci chiama in causa a tutti i livelli; e a porla all’attenzione è un’autorevole politologa quale Nadia Urbinati, spiegando che “il timore che un ignoto organismo del quale si sa ancora poco faccia una strage di innocenti ha indotto tutti, liberali e non, ad accettare la dura logica dell’emergenza”. E siccome dovremo convivere con questo, e verosimilmente con altri virus prossimi venturi, dovremo inventarci una nuova e diversa narrativa. Non sarà facile, ma è un compito che toccherà a noi, “direttamente e liberamente”. Da protagonisti quindi, non da comprimari.