Si chiamavano borghi, ciascuno con la propria identità, il campanile e la salamella tipica. Al Padiglione Italia della Biennale, che si inaugura questa mattina orfano di ministri, ma con la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, il curatore Mario Cucinella li chiama aree interne e sono quelle che costituiscono l’«Arcipelago Italia» (catalogo Quodlibet, ente promotore la direzione Arte e architettura contemporanee e Periferie urbane del ministero dei Beni culturali).
L’età post industriale, post moderna, post tutto… le ha lasciate proprio orfane e sperdute nell’Appennino delle scosse telluriche, nella Sardegna interna impenetrabile ai nouveaux riches, lungo le poetiche rive del Basento: il digitale salverà questa Italia delle «piccole patrie» o le cancellerà dalle app?
In mostra sessantasette progetti per aree interne tra i 550 giunti attraverso una call e cinque casi studio elaborati da sei studi professionali. Il fenomeno in atto in questa dorsale a bassa velocità, non 2.0, senza marketing urbano e cult solo per cicloamatori in cerca di agriturismi, si spiega con i dati. Ai quali Cucinella offre risposte.
Nelle aree interne abita il 20 per cento della popolazione su una superficie pari al 60 per cento del territorio nazionale: «Perde abitanti che sono sostituiti da circa un milione di migranti, ma non si reinventa il lavoro». Il 58 per cento vive e lavora nello stesso paesino «perché le infrastrutture non sono rinnovate e bisogna puntare su nuove forme di lavoro digitale e su mobilità studiata ad hoc, non pullman a orari fissi». Infatti, il 70 per cento si sposta in auto.
Il 42,2 per cento di queste aree è foresta «ma se le politiche ambientali impediscono di tagliare gli alberi e importiamo legname dalla Croazia per i mobili made in Italy è chiaro che non si reinventa un futuro». La superficie agricola utilizzata è il 52,9 per cento di quella disponibile (norme europee?). Gli addetti alle scuole pubbliche sono scesi del 19,6 per cento e quelli delle strutture sanitarie dell’8,1: «Qui il digitale può cambiare molto: insegnamento a distanza, esami medici con referti online in 24 ore magari, come succede già oggi, scritti da dottori che si trovano dall’altra parte del mondo. I grandi ospedali non servono: bisogna ripensare istituti per lungodegenti».
Le aree interne sono da reinventare anche per i Beni culturali: possiedono il 29,1 per cento del patrimonio «ma i loro musei sono deserti, ci va il 4,8 per cento dei visitatori complessivi»: se ne chiudi uno, sindaco e direttore del giornale locale si incatenano. Il 77 per cento degli edifici è a rischio sismico: «Infatti sono decisamente diminuite le compravendite residenziali».
Prosit, ma non del tutto. L’architettura è speranza, l’hanno ripetuto allo sfinimento in questi giorni d’inaugurazione della XVI Biennale. E ci vuole un bel fegato a proporre una riflessione sulle aree interne a Venezia, una Repubblica fondata sul mare che per un lungo periodo della sua storia occupava solo le coste — nel prossimo referendum, forse, si separerà da Mestre.
Solo che il «principio speranza», fedele compagno di ogni architetto,poggia sulle ruvide spalle del denaro… e l’Italia ha duemila miliardi di debiti. Così i cinque progetti sperimentali — che sono un luogo di lavoro per le foreste casentinesi, un sistema di connessione per la comunità di Camerino, un laboratorio e due centri curativi per il Basento, una nuova piazza per il Belice (con riscoperta del teatro di Consagra) e un luogo di cura per la Barbagia — si scontrano con lo scontrino-Italia. Nella gabbia dorata che l’arcinoto artista cinese Ai Weiwei espone sulla terrazza di Palazzo Franchetti più che gli immigrati sembrano esserci finiti gli abitanti di queste aree interne, imprigionati dalle strategie dell’archishow che li esclude. Le aree interne sono i danni collaterali del Capitalismo estetico (quello della finanza, delle smart city, archistar, social, gated community) che le recupera solo in chiave rural-chic: ma durante la settimana?
Bene che questo problema sia lanciato da Venezia, dove ogni metro quadrato è conteso tra le infradito dei turisti che hanno superato i tornelli e miliardari cinesi e sauditi che mordono sul collo gli americani, infastiditi che Venezia non sia più quella di Peggy Guggenheim: scusate Casentino what? Barbagia where? Cari stranieri, noi dobbiamo dare un vero senso al futuro di Venezia e delle aree interne che vada oltre il nuovo atelier e il nuovo airbnb.