Comunque si sviluppi la situazione politica nelle prossime ore, almeno una certezza aspetta il prossimo ministro dell’Economia: la prima decisione che dovrà prendere in Europa, sarà della categoria «dicembre 2013». Quella ormai è una tipologia proverbiale, o almeno dovrebbe esserlo. Nel dicembre del 2013 il consiglio dei ministri finanziari (Ecofin) dell’Unione europea trovò l’accordo, con l’appoggio dell’Italia, su qualcosa che avrebbe segnato la vita economica e finanziaria del Paese in questi anni: il cosiddetto bail in, l’obbligo di coinvolgere nelle perdite gli obbligazionisti e potenzialmente i depositanti ogni volta che una banca in dissesto riceva sostegno con del denaro pubblico. Aldilà del merito di quella direttiva, la decisione del dicembre 2013 resta un caso di scuola in Italia perché riunisce alcune caratteristiche ricorrenti: viene presa in un negoziato europeo con l’apporto del governo di Roma, implica conseguenze profonde e controverse per il Paese, ma tutto è coperto da un velo di apparente complessità tecnica e avviene senza alcun dibattito né consapevolezza dell’opinione pubblica. Pochi chiedono, pochi spiegano, i più procedono a fari spenti. Quando gli italiani se ne accorgeranno, sono ormai passati degli anni ed è troppo tardi per tornare indietro. Queste caratteristiche rendono le decisioni in stile «dicembre 2013» un archetipo dell’esperienza italiana in Europa.
Si tratta di un problema attualissimo perché la prossima potrebbe coincidere con il debutto o, al più, con il suo secondo passaggio del prossimo ministro dell’Economia in un consiglio Ecofin. L’accordo finale almeno a maggioranza qualificata, cioè rinforzata, è infatti previsto alla riunione di Lussemburgo del 21 giugno prossimo. Anche in questo caso di tratta di qualcosa di collegato con il bail in perché è una misura prevista dalla stessa direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche (Brrd). Quel testo prevede che gli istituti si debbano dotare di un cuscinetto minimo di titoli soggetti a bail in durante una risoluzione: il cosiddetto «minimum requirement for eligible liabilities» (Mrel), o requisito minimo di passività disponibili per imporre perdite sugli investitori in caso di dissesto. La direttiva prevede infatti che è possibile versare denaro pubblico per garantire l’operatività di una banca isolo dopo aver imposto perdite ai suoi investitori — azionisti, creditori e depositanti — pari all’8% delle passività. Il principio dello Mrel discende da qui: bisogna ridurre al minimo il trauma del colpo di forbice sui creditori, obbligando le banche ad emettere titoli di debito di cui sia già noto che sono soggetti a questo rischio potenziale. Si tratta di bond spesso subordinati e convertibili, pensati esattamente per costituire quel cuscinetto che permetta a una banca in dissesto di assorbire meglio le perdite e ricostituire il patrimonio (appunto, magari trasformando il debito in capitale a valutazioni diluite).
Fin qui tutto logico, ma come sempre il diavolo è nei dettagli. Quanto profondo dev’essere quel cuscinetto di titoli aggredibili in caso di crisi? In quanto tempo ogni banca deve costituirlo? Suoneranno magari come domande puramente tecniche, ma dalle loro risposte dipende la disponibilità di credito all’economia e dunque vari punti di prodotto interno lordo in più o in meno nei prossimi anni. Lo si dichiara esplicitamente nell’ultimo Rapporto di stabilità finanziaria pubblicato dalla Banca d’Italia una decina di giorni fa: «L’introduzione (del Mrel, ndr) potrebbe dar luogo a un rilevante aumento del costo della raccolta per gli intermediari e a una minore disponibilità di credito bancario per l’economia», si legge. Con una stima in particolare: a seconda degli scenari che saranno definiti per la costituzioni del cuscinetto di titoli aggredibili, secondo la Banca d’Italia solo le prime 15 banche italiane oggi potrebbero avere «una carenza aggregata di passività idonee tra i 30 e i 60 miliardi di euro, a seconda del grado di subordinazione del requisito tuttora in discussione». Il periodo transitorio concesso per costituire il cuscinetto sarà forse di tre anni. In questo tempo, istituti grandi, medi e anche piccoli dovrebbero simultaneamente rivolgersi al mercato per collocare quei titoli a rendimenti che convincano gli investitori ad assumersi quei rischi.
In proposito Fabio Panetta, vicedirettore generale della Banca d’Italia e membro del Consiglio di vigilanza della Banca centrale europea, ha espresso dubbi in un intervento alla Camera di giovedì scorso. Ha detto Panetta: «Se il requisito sarà tale da richiedere alle banche emissioni (di titoli, ndr) molto cospicue in tempi brevi, il costo dei collocamenti potrebbe peggiorare in misura significativa». In altri termini il costo del finanziamento potrebbe salire bruscamente e soprattutto per le banche medio-piccole, quelle meno abituate ad affacciarsi sul mercato per emettere bond. Ha continuato Panetta: «Va evitato che dal negoziato europeo scaturiscano obiettivi troppo ambiziosi, che finirebbero per ripercuotersi negativamente sul costo e sulla disponibilità di credito all’economia». Poiché infatti il Mrel è determinato in proporzione al portafoglio di prestiti e investimenti di ciascuna banca, alcuni istituti potrebbero comprimere il credito proprio per ridurre al minimo l’obbligo di collocare debito troppo costoso. In alternativa, potrebbero trasferire i costi più alti alle famiglie e alle imprese alle quali prestano. E proprio le banche piccole nella periferia europea, quelle che servono le piccole imprese nei distretti più decentrati, sono le più soggette a seguire strategie del genere. Dal punto di vista italiano, il rischio è evidente: cedere alla richiesta da parte della Germania di fissare livelli di Mrel troppo alti, come a quanto pare Berlino chiede già. Per i tedeschi ottenere cuscinetti spessi e profondi significa rendere meno probabile il ricorso al Fondo comune di risoluzione europeo per gestire i dissesti bancari: è un modo di ridurre al minimo la messa in comune del rischio in area euro. Ma questa tattica avrebbe un impatto deflazionistico e depressivo sulla periferia europea. Si tratta ora di arrivare a una decisione equilibrata all’Ecofin, se necessario costruendo un’alleanza di Paesi che blocchino la spinta tedesca. Per il prossimo ministro dell’Economia, giugno sarà un mese caldo.