E sono cinque. Alla fine anche il Piemonte ha detto sì al referendum che si propone di abrogare la quota proporzionale dalla legge elettorale, facendo così scattare il «quorum» di regioni necessarie per chiedere la consultazione popolare. E alla fine anche Forza Italia si è rassegnata a dare ciò che Matteo Salvini chiedeva. La resistenza all’«oppressore sovranista» era durata poche ore l’altro giorno, giusto il tempo per Silvio Berlusconi di rendersi conto che le sue truppe erano pronte a schierarsi con l’alleato-avversario leghista. Così è fallito il putsch ideato da Gianni Letta, e inizialmente assecondato dal Cavaliere: l’obiettivo era sabotare il disegno di Salvini, che attraverso un maggioritario spinto immagina di piegare il sistema elettorale al suo disegno.
Ma appena da Arcore era giunto l’ordine di votare «contro» nei consigli regionali, si è capito quanto fragile ormai sia diventata Forza Italia, un partito che rischia di rompersi da sotto e non da sopra, che rischia cioè di frantumarsi sul territorio prima ancora che in Parlamento. Era bastato che il governatore della Lombardia minacciasse di porre la «fiducia» — con il conseguente «tutti a casa» — perché i dirigenti nazionali forzisti venissero tempestati di telefonate dal Pirellone. E mentre lo staff di Berlusconi provava a convincere gli abruzzesi, il cedimento dei lombardi aveva consentito ai piemontesi di smarcarsi. A quel punto nemmeno la linea di mediazione aveva retto, e dall’astensione si era arrivati alla libertà di voto per i consiglieri azzurri.
In fondo non c’era alcun motivo di rompere il partito per una simile battaglia, siccome la manovra di Salvini è poco più di una postura politica, una «bandiera» da sventolare finché la Consulta non la ammainerà, cassando il referendum per quei profili di incostituzionalità che — sottovoce — gli stessi dirigenti leghisti riconoscono. Ma la vicenda che ha visto protagonisti Berlusconi e Letta evidenzia la crisi di Forza Italia, dove si lamenta non solo «l’assenza del capo, che quando c’è cambia idea continuamente», ma persino la mancanza di un organizzatore «come Verdini» e il fatto che gli organismi dirigenti «non vengono mai convocati» quando si tratta di prendere delle decisioni.
È evidente che il Cavaliere, se potesse, spiegherebbe in pubblico cosa pensa del leader del Carroccio: «Quando vado in Europa, di lui mi dicono pesta e corna». Quando torna in Italia ci pensa Letta a dirgli il resto: «Se non ti poni in alternativa a Salvini cosa ti resta? Anche perché, senza di te, la Lega non vince e non governa». Il Gran Ciambellano è amareggiato, vorrebbe sganciare il movimento azzurro dalla sfera d’influenza dell’«oppressore» e confida che Berlusconi appoggi infine una riforma elettorale proporzionale.
Ma l’altra sera, al dunque, l’ex sottosegretario alla Presidenza ha condiviso il documento che è stato votato all’unanimità dai deputati forzisti: ragioni di realpolitik, sul territorio come a livello nazionale, impongono al Cavaliere di tenersi ancorato al simulacro del centrodestra. In tal senso il «tavolo delle opposizioni», cioè di un raccordo parlamentare con Lega e Fratelli d’Italia, è un surrogato di alleanza utile alla tattica, in attesa di provare a intercettare almeno una parte dell’elettorato che si è perso. E anche in attesa di capire come andrà a finire in Parlamento la partita sul sistema di voto.
Ché poi il partito non si divide solo tra Salvini e Renzi ma pure tra proporzionalisti e maggioritari, e tutti insieme vivono la loro stagione in Parlamento come «una fase di parcheggio»: c’è chi ragiona sulla necessità di un nuovo programma, chi di un nuovo leader sostenuto da Berlusconi, e c’è chi aspetta che nella Lega accada prima o poi qualcosa. Intanto Berlusconi, come racconta un esponente azzurro, «davanti alla rivolta dei suoi consiglieri regionali, ha fatto sua una massima di Flaiano: “Sono i miei sostenitori. Quindi li seguo”»…