Parlava da studioso e quindi con un grado di libertà maggiore ma quando Pasquale Tridico al Corriere ha detto che il reddito di cittadinanza «andrà valutato per quante persone sottrarrà alla povertà e non solo per quante ne collocherà al lavoro» ha legittimato una sensazione di tanti. La reale platea di riferimento della nuova misura di welfare voluta dai Cinque Stelle appare chiara: i poveri e non i disoccupati. E a scandire la differenza si staglia un numero che deve far riflettere: i giovani usciti dalla famiglia d’origine che hanno presentato richiesta è attorno appena al 7%. In sostanza tutta l’operazione che nel mese di marzo ha portato circa 800 mila cittadini a presentarsi ai Caf o alle poste oppure a inoltrare online la domanda di sussidio si sta rivelando la strada per ottenere un vero censimento della povertà. Un censimento che probabilmente ridimensionerà la cifra monstre di 5 milioni di poveri fonte Istat che spesso gli esponenti grillini hanno usato come clava mediatica contro «quelli di prima». Per non arrivare a conclusioni affrettate conviene fare un passo indietro e ripartire dai numeri sintetizzati da Tridico nell’intervista al Corriere del 14 aprile. Sappiamo che l’Inps ha già ricevuto all’incirca 820-840 mila domande e che il tasso di accoglienza — in base al primo campione scrutinato pari a tre quarti del totale — è del 75%. Quindi alla fine avremo poco più di 600 mila sussidi già bollinati. Stiamo parlando di domande presentate a nome di altrettante famiglie e non di singoli individui. Per ottenere il numero complessivo delle persone che potranno beneficiare della prima emissione della nuova card del welfare bisogna moltiplicare quel numero per 2,75, il numero medio di componenti delle famiglie titolate a ricevere il Reddito in base alla relazione tecnica allegata alla legge. Risultato: 1,650 milioni di persone. La distanza con i 5 milioni di poveri è siderale. Vanno tenuti in considerazione però alcuni caveat. Il primo è che sin dalla «nascita politica» è stato dichiarato che il Reddito avrebbe interessato circa il 70% dei poveri assoluti Istat.
Infatti anche prendendo il numero stimato dall’Inps di potenziali beneficiari (1,3 milioni di famiglie) e moltiplicandolo per il coefficiente di 2,75 arriviamo comunque fino a 3,5 milioni di poveri. Non più su. Il secondo caveat ci suggerisce che stiamo parlando delle famiglie mobilitatesi nel solo primo mese di raccolta delle domande. I Caf però hanno già calendarizzato per aprile 100 mila appuntamenti con altrettanti capofamiglia potenziali beneficiari. Inoltre la trafila dei controlli previsti può aver spaventato dei potenziali beneficiari i cui redditi sono parte trasparenti e parte in nero. Terzo avviso: per come è stato tagliato il provvedimento non rientrano tra i beneficiari alcuni segmenti, a cominciare da un discreto numero di immigrati che non risiedono in Italia da almeno 10 anni (80 mila secondo la stessa relazione tecnica). Come fa notare Cristiano Gori, sociologo e docente di politica sociale a Trento, oltre gli stranieri non lungosoggiornanti restano fuori un folto gruppo di nuclei familiari del Nord sottoposti a un costo della vita più alto e tagliati fuori da soglie di accesso rigide e omogenee e, soprattutto, le famiglie con 4 o più componenti per colpa di un meccanismo che ha privilegiato i single e le famiglie leggere. Più in generale, secondo Gori, c’è il rischio che siano esclusi trasversalmente i «veri ultimi», quelli che pagano la mancata informazione da parte dei Comuni, il canale con cui gli indigenti sono abituati a dialogare. Sul piano della pura fenomenologia non bisogna sottovalutare l’assenza di code. Gli uomini dei Caf che pure sono abituati ai flussi di lavoratori contribuenti dei giorni della presentazione dei modelli 730 sono rimasti stupiti dalla bassa affluenza che si può solo in parte giustificare con un eccesso di prudenza o di scetticismo congenito. In secondo luogo la percentuale di domande bocciate (il 25%) non è così bassa perché la stragrande maggioranza arrivata all’Inps aveva comunque passato il vaglio dei Caf e della certificazione Isee, il documento da allegare che per dimostrare di avere un reddito sotto i 9.360 euro annui.
Sommando dati e riflessioni fin qui riportati la prima conclusione che si può trarre riguarda la differenza (notevole) tra quelle che il coordinatore dei Caf sindacali, Mauro Soldini, chiama «la povertà statistica» e «la povertà dichiarata». Una distanza che spinge a riprendere il dibattito sulla misurazione dell’indigenza e sulle «tre povertà» — copyright LaVoce.Info — per sottolineare come esistono più metodologie di monitoraggio e nessuna è perfetta. La povertà relativa è una misura standard adottata dalla Ue che indica come povere tutte le famiglie il cui reddito è inferiore al 60% di quello mediano. In realtà questo indice fotografa più la disuguaglianza — relativa per definizione — che la povertà ma è targato Eurostat e non se ne può prescindere. Per tradizione l’Istat usa un altro criterio di povertà assoluta che prende come riferimento i consumi, identificati in un paniere di beni e servizi ritenuti essenziali e misura gli scostamenti. Il vantaggio è la velocità nel produrre risultati mentre l’indicatore di povertà relativa ha una lavorazione più lungo. Di conseguenza i due dati vengono comunicati in maniera asincrona. Dulcis in fundo esiste un indice — il terzo — di grave deprivazione materiale, frutto di un’indagine a campione (70 mila individui in Italia). Gli intervistati devono rispondere a domande come «si può permettere una lavatrice?», «e un’auto?» o può andare «in vacanza una settimana l’anno lontano da casa?», che hanno già creato polemiche sulla reale capacità di fotografare il disagio. Con i dati provenienti dalle domande per il Reddito probabilmente faremo un passo in avanti sulla strada del «conoscere per deliberare», perché avremo un monitoraggio della povertà più veritiero. Diminuiranno i decibel delle risse sui-poveri-ma-non-per-i-poveri tipiche dei talk show ma ce ne faremo una ragione.