Come il premier greco Alexis Tsipras nella tarda primavera del 2015 al culmine dello scontro con Bruxelles, ieri Matteo Salvini si è rivolto alla piazza. Il vicepremier vuole usare la manifestazione della Lega dell’8 dicembre a Roma «per dire ai signori di Bruxelles: lasciateci lavorare, nessuna letterina potrà farci tornare indietro».
Per ora più vaga è invece la data alla quale entreranno in vigore le due misure portanti della legge di Bilancio. Sia per reddito e pensioni «di cittadinanza» che per la revisione del sistema previdenziale con l’anticipo del ritiro, per ora il governo non affronta i dettagli. La legge si limita a costituire due fondi che dovrebbero finanziare i provvedimenti: nove miliardi l’anno (di cui 2,2 reindirizzati da programmi già attivi contro la povertà) per la promessa di integrare fino a 780 euro al mese i redditi più bassi; e 6,7 miliardi nel 2019, più sette miliardi in ciascuno dei due anni seguenti, per il ritiro dal lavoro di chi abbia almeno 62 anni e 38 di contributi («quota 100»). Di queste misure si dice solo che partiranno nel 2019, senza precisare quando.
Nel rinvio della definizione concreta delle promesse di M5S e Lega, alcuni vedono un ramoscello d’olivo a Bruxelles: resta sempre tempo per trattare. Un altro effetto è però quello di lasciare nell’ombra anche le conseguenze precise delle misure. Per ora milioni di elettori non si accorgeranno che beneficiare dei nuovi sussidi, come magari speravano, non è scontato. Un esame dei dati mostra infatti che il progetto di reddito di cittadinanza in bilancio copre, probabilmente, una frazione di ciò che i 5 Stelle hanno annunciato; quanto a «quota 100», per ora somiglia più a una singola finestra che permette il pensionamento anticipato solo per alcuni nel 2019 (ma per pochi o nessuno negli anni seguenti).
È ciò che emerge da un’analisi dei numeri, a partire dall’impegno di M5S a «abolire la povertà» integrando fino a 780 euro al mese i redditi di chi non arriva a quella cifra. Presa alla lettera, quella promessa costa varie volte più delle risorse messe a disposizione. Solo per integrare fino a 780 euro al mese i redditi dei circa tre milioni di italiani con dichiarazioni fiscali fino a mille euro l’anno, servirebbero 26 miliardi. Per integrare le entrate degli oltre sette milioni che denunciano al fisco redditi fino a 500 euro al mese, occorrono più di 50 miliardi l’anno. Si tratta di stime caute, ipotizzando che ciascun contribuente sia sempre al massimo della propria fascia di reddito pubblicata dal Dipartimento delle Finanze.
Il governo, è vero, prevede limitazioni al sussidio per chi ha una casa di proprietà o ha altri redditi in famiglia. Ma i proprietari di immobili fra il 20% più povero della popolazione sono rari e altri effetti contrari rischiano di aumentare la spesa. Per esempio oggi circa dieci milioni di adulti, incapienti o quasi, non presentano dichiarazione dei redditi. Saranno invece spinti a farlo nel 2019 se vedono l’opportunità di qualificarsi per il sussidio.
Difficoltà simili si profilano su «quota 100». Che il governo stanzi 6,7 miliardi il primo anno del programma, poi sette in ciascuno dei due seguenti, significa una cosa sola: ci sono soldi solo per chi si ritira nel 2019 e continuerà a pesare sul sistema previdenziale nei due anni seguenti. Questa è una finestra che si apre e poi si chiude, non una revisione permanente. Per non parlare degli almeno sette miliardi che può costare fino al 2021 la liquidazione dei dipendenti statali. La sola soluzione sarebbe introdurre nette penalizzazioni per chi lascia prima, ma quelle esistono già oggi.
Il tutto nel frattempo viene finanziato con un aumento netto di tasse sul sistema produttivo, tagli agli incentivi sugli investimenti tecnologici e il dimezzamento dei crediti d’imposta per ricerca e sviluppo. Milioni di italiani che sperano nei progetti del governo rischiano di restare delusi quando se ne vedranno i dettagli: certo, non un motivo di accelerare i decreti attuativi della manovra.