Il nuovo governo alle prese con la priorità rappresentata dalla legge di Bilancio non ha ancora affrontato un nodo che nel frattempo è venuto al pettine, non ha formulato un giudizio sullo stato di attuazione del reddito di cittadinanza. Parliamo di un provvedimento che ha poco più di un semestre di vita e che però ha già mostrato limiti strutturali e pecche organizzative che non possono essere trascurati. In almeno tre casi, poi, il reddito ha smentito le attese dei suoi stessi sostenitori: non è servito a sorreggere il Pil dell’anno in corso, non ha spinto gli inattivi a mobilitarsi e a far crescere la quota di chi cerca veramente lavoro e, soprattutto, non si è rivelato quella pietra miliare nella storia del welfare italiano che doveva essere nelle intenzioni di chi ne ha disegnato i contorni. La verità, assai prosaica, è che il reddito di cittadinanza via via che accumula giorni di vita non riesce a nascondere un difetto congenito: è stato varato in tutta fretta perché doveva servire a una grande operazione di comunicazione («l’abolizione della povertà» proclamata dall’allora vicepremier Luigi Di Maio) e subito dopo doveva farsi vento per soffiare nelle vele elettorali dei Cinque Stelle. Non è andata così, la nuova legge si è dimostrata uno strumento di captatio benevolentiae largamente imperfetto e al suo interno non è riuscita a celare alcune contraddizioni che ne hanno compromesso l’immagine.
Mi riferisco al fatto che la legge privilegi le famiglie con uno o due figli rispetto a quelle extralarge e che tagli completamente fuori gli stranieri. Ma forse il pasticcio più grande creato riguarda la scelta di sommare l’intervento contro l’indigenza con una rivisitazione delle politiche per il lavoro. Con quest’abbinata i Cinque Stelle hanno coltivato un progetto ambizioso, scardinare una volta per tutte l’egemonia della sinistra nel campo delle disuguaglianze. Per far questo hanno individuato un’ampia platea sociale — i poveri — che la socialdemocrazia italiana aveva ampiamente sottovalutato, hanno creato per questa platea una sorta di sistema di welfare che viaggiasse in parallelo con quello esistente e che avesse dunque propri fondi di dotazione e un proprio personale dedicato (i navigator). Mentre la sinistra si era in precedenza impegnata a promuovere politiche attive del lavoro e ricerca dell’occupabilità i Cinque Stelle hanno scelto un’altra strada, quella del risarcimento o, se volete usare un termine antico, dell’assistenzialismo.
Si sono create così aspettative di ingresso al lavoro che non potevano essere soddisfatte da una legge-centauro, per di più in un mercato del lavoro come quello italiano in cui i paradossi sono all’ordine del giorno e che ha visto aumentare gli occupati ma diminuire le ore lavorate. Poveri e disoccupati sono due platee differenti, coincidono solo per un quarto, i Cinque Stelle hanno pensato di unificarle per via legislativa e a quel punto hanno creato un altro pasticcio.
Il Reddito di inclusione — la misura anti-povertà varata in extremis dal governo Gentiloni — aveva scelto un modello organizzativo e distributivo centrato sui Comuni, il nuovo provvedimento pentastellato ha puntato su un doppio canale — Comuni e Centri per l’impiego — finendo così per generare complicazioni e confusioni. Il buonsenso avrebbe consigliato meno fretta e scelte meno improvvisate ma in questa vicenda non è stato un compagno di strada dei Cinque Stelle che si sono fatti sovente consigliare dall’ideologia e sappiamo, però, come nella storia del welfare italiano questa commistione sia servita solo a generare disastri. E a far attecchire una malattia politica — Innocenzo Cipolletta la chiama «riformite» — a causa della quale ogni nuova maggioranza riscrive le leggi che si è trovata in eredità, creando così un ingorgo di norme che si sovrappongono o persino si contraddicono. Ma proprio per evitare di perpetuare il morbo delle riforme che riformano sé stesse è impensabile cancellare con un colpo di spugna il reddito di cittadinanza e tornare alla situazione precedente. Il paradosso, caso mai, è che dovranno adoperarsi per «ripararlo» proprio coloro che lo avevano criticato sin dall’inizio e che per di più hanno visto i loro argomenti confortati dai fatti.