Spesso criticata per la sua arretratezza, c’è un punto che l’amministrazione italiana può rivendicare: è più avanti quasi di chiunque altra nell’uso delle tecnologie per far pagare le tasse ai cittadini. «L’Italia è all’avanguardia», si legge nell’ultima Nota d’aggiornamento del governo sui conti, nella «digitalizzazione delle certificazioni fiscali». Da gennaio per esempio parte lo scontrino digitale nei negozi, da emettere con una cassa collegata al sistema dell’Agenzia delle Entrate. Da gennaio scorso è in vigore l’obbligo di fatturazione elettronica fra imprese e fra imprese e consumatori (esenti solo i piccoli autonomi con l’aliquota «piatta» del 15% fino a 65 mila euro). Quest’ultima misura, sperimentata con successo in Sudamerica e in Portogallo, ha una lunga storia in Italia: nel 2013 il governo di Mario Monti la introdusse per i rapporti fra imprese e Stato; quindi il governo di Paolo Gentiloni la allarga con la legge di bilancio 2018 agli scambi fra i privati, a valere da gennaio scorso. Oggi quella riforma è (anche) un test a grandezza naturale. Se il prossimo bilancio dovrà chiudersi recuperando all’evasione la cifra senza precedenti di 7,2 miliardi di euro, nella fatturazione elettronica dev’esserci la prova che è possibile. Dev’essere questa la riforma che dimostra come la lotta all’evasione sia possibile, perché la tecnologia risolva quasi tutto e se ne può misurare l’effetto in anticipo.
Ma è così? Il primo bilancio, fino ad oggi, offre un messaggio ambivalente. Il nuovo regime è partito bene: da gennaio le imprese devono emettere fatture digitali con un codice e su un particolare supporto, da inviare attraverso un «sistema di interscambio» centrale; lo spazio per frodi o fatture gonfiate in acquisto o snellite sulle vendite si riduce, perché aumenta la possibilità di fare verifiche. Non è un caso se a gennaio il gettito dell’imposta sul valore aggiunto (Iva) finalmente esplode: sei miliardi, il 10% più del gennaio dell’anno prima. Poi però accade qualcosa.
Le stime del «Corriere» sui dati del monitoraggio delle entrate del Dipartimento delle Finanze mostrano che lo zoccolo di gettito Iva in più assicurato da questa misura inizia ad assottigliarsi di mese in mese (vedi grafico). Per tutta la primavera le entrate rispetto agli stessi mesi dell’anno prima sono superiori circa del tre per cento: meno del 10% iniziale, ma sempre molto in un’economia a crescita zero. Quindi a giugno il gettito Iva resta sempre superiore a quello del giugno precedente, benché solo dell’1,5%; comunque a questo punto lo Stato ha accumulato, su un totale di quasi sessanta miliardi, circa due miliardi in più di quanto fosse riuscito a fare nella prima metà del 2018.
È a quel punto che tutto inizia ad andare in modo diverso. A luglio il gettito Iva, a 9.921 milioni, malgrado la fatturazione elettronica, è appena inferiore a quello del luglio dell’anno prima. E benché su agosto manchino ancora tutti i dettagli, le comunicazioni del governo sulle entrate prefigurano un crollo a doppia cifra rispetto allo stesso mese del 2018. In estate si sono persi oltre cento milioni di gettito Iva rispetto all’estate di un anno fa. Può darsi che incidano le proroghe su certi termini di versamento, o che pesi l’economia debole. È plausibile però che tanti italiani abbiano preso le misure dei nuovi vincoli e stiano imparando ad aggirarli. Vincenzo Visco, l’ex ministro delle Finanze, ricorda che approvare buone riforme fiscali è necessario ma non basta: «Vanno fatte rispettare – dice – e non è scontato che l’amministrazione oggi ne abbia i mezzi». Adesso che dall’evasione andranno recuperati sette miliardi in un solo anno, costruire quella capacità è più urgente che mai. Ma la vicenda dell’Iva nel 2019 ricorda a tutti che non sarà una passeggiata.