Madre poligama, lesbica cool, migrante nera l’importante è quello che non hai vissuto.
Ci sono tantissimi romanzi scritti in inglese che resteranno e ci ricorderanno di questo tempo – dal quartetto sulle stagioni di Ali Smith (Sur) alle visioni linguistiche di Mike McCormack in Ossa di sole (Il Saggiatore), da Wolf Hall di Hilary Mantel (Fazi) Persone normali (Einaudi) di Sally Rooney su un fronte più popolare -, ma nessuno di questi libri tiene insieme idee e sentimenti con la fluidità e il piacere di Ragazza, donna, altro. L’unico paragone possibile, sul piano della passione con cui questo libro è stato letto a partire dalla sua pubblicazione, è quello con Denti bianchi di Zadie Smith. Ma quel libro conteneva tutta l’arroganza effervescente di un esordio, aspirava a dire qualcosa di audace su una società inglese percepita in trasformazione.
C’era Tony Blair al governo, gli Oasis erano ancora una band, la gente scriveva Cool Britannia senza mettersi a ridere, e la stampa e i lettori hanno accolto la proposta multiculturale, pensosa e divertita di Smith, con una benevolenza che oggi è inimmaginabile. In qualche modo, Zadie Smith serviva alla campagna pubblicitaria di una nazione che voleva ancora imporre la propria egemonia culturale e rassicurare i lettori che la vita sexy ed eccitante di chi si trasferiva a Londra per «diventare giovane» era ancora possibile, in una confusione babelica di lingue e di esperienze.
Sono passati vent’anni, Londra non è più una città così aperta – non tanto per il Covid 19 quanto per la brutalità dei tagli ai servizi sociali e le espulsioni dickensiane nei confronti delle fasce più deboli – e per raccontarla ci vuole una voce ipnotica, audace, consapevole delle asimmetrie di potere; una lingua che non è scura né cupa nel suo svolgersi, anzi, ma è capace di preservare un fremito di rabbia sotto la gioia. La lingua di Bernardine Evaristo è così, la lingua della traduttrice Martina Testa è così: seducente come la città che racconta, plastica e inafferrabile, ma piena di strettoie in cui la luce collassa nel buio, e l’assalto alla vita, il desiderio di prendersi tutto, si trasforma in qualcosa di terrificante. Succede a Carole, una studentessa prodigio dei caseggiati popolari a cui le amiche danno sempre della secchiona, quando va a una festa e beve troppo, e subisce uno stupro di gruppo a quattordici anni: poi il suo corpo non fu più suo, diventò una cosa loro.
C’è un’afasia dell’esperienza che Evaristo restituisce con una frattura stilistica, e infatti la forma è uno degli aspetti più significativi di Ragazza, donna, altro. Per raccontare la vita di dodici donne (non tutte si identificano come tali, e alcune infatti cambiano), per raccontare le feste, i traumi, l’ambizione e il ridimensionamento dell’aspettativa che le riguarda, Evaristo sceglie di compilare una tracklist, adottando la forma del concept album. Non è un caso, forse, che l’altro romanzo più importante degli ultimi vent’anni, Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan, attingesse pienamente dalla musica.
Amma, Yazz, Dominique, Carole, Bummi, LaTisha, Shirley, Winsome, Penelope, Megan/Morgan, Hattie e Grace: ognuna di queste persone è una canzone. Ognuna di loro viene cantata in un flusso continuo di pensieri e azioni, come se l’autrice a un certo punto si sintonizzasse su di lei e poi cambiasse stazione radiofonica. Non c’è un epilogo maturo e compiuto che sa troppo di romanzo, ma c’è una dissolvenza. È una scelta stilistica commovente, così semplice e così radicale, perché dice che una persona non finisce quando si smette di definirla; c’è tutta una vita che va avanti nel quotidiano, in cui le protagoniste si riappropriano della percezione di sé, e imparano a fare a meno dello sguardo ossessivo che deve sempre qualificarle e trovare una risoluzione morale o esemplare al loro destino. Questo principio si evince anche dagli incipit dei racconti: veniamo scaraventati nella vita di una donna o di una persona trans in un momento che può essere banale quanto perfetto. È la dimostrazione che una volta inventata Mrs. Dalloway non può morire mai, e infatti il pensiero va a Virginia Woolf in vari passaggi del testo; solo che invece di comprare fiori, queste ragazze, donne, e altro ballano musica egiziana. Come Rachel Cusk su altri fronti, anche Bernardine Evaristo sta lavorando a un nuovo modernismo. E così impariamo a conoscere ognuna delle protagoniste come madre, figlia, amante poligama, lavoratrice o migrante, e restiamo avvinghiati a lei per il piacere della voce, per la singolare frequenza che emana. È un mondo polifonico, laddove troppo spesso la teoria vuole ridurre l’esperienza di essere donna a qualcosa di univoco, nell’illusione che sia proprio questa univocità, questo nucleo di somiglianza, a rendere più forte una battaglia di emancipazione.
La vera rivoluzione sta nel contrario: nella rifrazione costante del punto di vista, per segnalare che ogni teoria mirata a trattenere il flusso mobile di una vita è insufficiente, ma da questa insufficienza si può ricavare una specie di poesia. E farne anche una battaglia. Già, la battaglia: alcune delle canzoni scritte da Evaristo sono d’amore, ma tante sono di protesta. Attingendo a diverse idee di Donna, razza, classe (Edizioni Alegre) di Angela Davis, che non a caso viene citato come libro formativo, Evaristo analizza l’influsso di coscienza dato dalle grandi pensatrici nere britanniche o afroamericane, e il modo in cui l’esperienza coloniale – postcoloniale – decoloniale ha influenzato la vita e il pensiero di tantissimi soggetti che si sono interrogati su mancanze e privilegi, ricontestualizzandoli ogni volta.
In Ragazza, donna, altro si parla molto di come la classe di appartenenza incida sul destino. Evaristo traccia con ironia – e un po’ di ammaccata consapevolezza – come sia stata proprio la classe a vincere sulla storia, ancora oggi, per le ragioni sbagliate: Amma è diventata una figura dell’establishment teatrale londinese, è una lesbica pienamente integrata e gentrificatrice che ha trasformato Brixton in un quartiere dagli affitti carissimi in cui la matrice afrocaraibica viene costretta in spazi sempre più angusti, assediati dai foodie e dai lavoratori del tech, ma poiché è nera, il suo nuovo istinto alto-borghese e il suo potere economico vengono opacizzati, e il pubblico tende ad affibbiarle battaglie che non sono mai state le sue. Amma un po’ ci gioca, un po’ se ne vergogna, e l’autrice la asseconda. Perché anche se c’è satira nel suo presentare i temi del femminismo separatista, del black capitalism, e dell’ossessione verso l’appropriazione culturale, non c’è mai violenza: è per questo, forse, che i libro conta pochissimi punti fermi sul piano grammaticale. (È bello interrogarsi così tanto su un segno di interpunzione e sul suo significato: accadeva con i punti e virgola di William Faulkner, con i trattini di Francis Scott Fitzgerald, oggi con i punti non scritti di Bernardine Evaristo).
Ragazza, donna, altro è un libro importante perché insegna come si pensa, e come si scrive, per chi è interessato a farlo. Trova soluzioni intelligenti per problemi che sono caotici e sentimentali, in un momento storico in cui pare che siano proprio questi sentimenti a dettare la meglio su tutto: su come concepiamo la letteratura, come viviamo la politica, come affrontiamo il cambiamento sociale. E infatti c’è una passione indomabile nel testo, qualcosa che dilaga e ricorda le onde woolfiane, ma allo stesso tempo c’è una disciplina e una fiducia nella capacità della parola che mancava davvero da tanto. Veniamo da anni di narrazioni in prima persona, di identificazioni estreme tra chi scrive e il personaggio che appare sulla pagina, e alla lunga questa intimità è diventata soffocante, tanto da farci dimenticare che ci può essere un’intimità assoluta con le vite degli altri invece, e di come può essere verissima una cosa che non ci è mai successa. Come tutte le canzoni che abbiamo mandato a memoria, le ragazze, donne, e l’altro di Bernardine Evaristo ci ricordano quanto è importante quello che non abbiamo vissuto, e quanto l’erotismo della letteratura viva di immaginazione, proprio come quello carnale. Ci rende cittadine e cittadini di un mondo più ampio, forse più cupo e caotico di quello che descriveva la ragazza Zadie Smith vent’anni fa, ma sempre estremamente vitale, fatto di pensieri, e fatto di carne.
*Claudia Durastanti, La Stampa, 28 novembre 2020