Da mesi siamo tornati a vivere certi flashback dai giorni peggiori della storia ventennale dell’euro. In Italia gli interessi sul debito sono esplosi. Si è ricominciata a percepire la fragilità delle banche, collegate alla finanza pubblica se non altro per l’enorme quantità di titoli di Stato che posseggono. Gli investimenti delle imprese sono bloccati, l’economia ha iniziato a soffrire e prima o poi dovremo fare il conto dei posti di lavoro distrutti o mai nati sotto questa enorme nube d’incertezza.
Restano però due differenze rispetto agli episodi simili vissuti negli anni scorsi in nell’area euro. La prima è che qui c’è molto poco di sistemico e moltissimo di specifico: quel che sta accadendo non riflette in primo luogo un guasto nell’architettura dell’euro, ma le scelte di un solo Paese mentre il resto dell’area cresce e non è sfiorato dagli stessi tremori. L’altra differenza è anche più profonda, perché questo è un problema completamente politico. Non parte dalla fragilità dell’economia ma la provoca.
In Italia siamo ormai così abituati a sentirne di tutti i colori che diventa normale perdere la percezione del falso, dunque vale la pena sottolineare alcuni fatti spesso dimenticati: quando il Paese entra in questa spirale nel maggio scorso, viene da quattro anni di ripresa con un aumento cumulato della crescita di quattro punti; il deficit e il debito sono in calo lento ma costante da quattro anni; lo sono malgrado un (limitato) intervento pubblico che ha favorito un po’ del rafforzamento delle banche; il costo medio degli interessi non è mai stato tanto basso per il governo, le famiglie e le imprese; e dal 2014 è stato creato un milione di posti di lavoro, il massimo tasso di occupazione da decenni.
Questi sono i fatti e naturalmente non implicano che tutto prima andasse bene: il precedente governo ha perso, perché aveva rimosso i grandi temi della povertà e della sicurezza dei cittadini come fossero dei tabù. Il punto è però che questa di oggi è una partita molto politica, che sta degenerando in uno scontro istituzionale fra il governo e la Commissione europea (quest’ultima sostenuta da tutti — tutti — gli altri governi dell’Unione). E i gradi di responsabilità sono per forza diversi, perché chi agisce si trova a Roma mentre Bruxelles esercita solo un legittimo diritto di critica. In mezzo però ci sono gli italiani, che rischiano di pagare a un prezzo molto alto a questo conflitto. Del resto, si sa, le battaglie che fanno più vittime sono sempre quelle in cui i generali credono di combattere la guerra di oggi e non capiscono che invece stanno combattendo quella di ieri. Sono mentalmente vecchi, mandano le truppe al massacro contro un nemico che non esiste più.
Una guerra di ieri, a un nemico che non esiste più, è quella che sta combattendo il governo italiano quando parte alla carica contro i suoi fantasmi: l’austerità, la Banca centrale europea «che non ci aiuta», un presunto pregiudizio anti-italiano. L’austerità — una stretta di bilancio in recessione — non esiste più dal 2011-2012 quando, su ispirazione di Berlino, l’area euro rispose così ai problemi di allora. Quella scelta produsse un tale disastro che ancora oggi, non solo in Italia, resta endemica fra gli elettori una sorta di sindrome da stress post-traumatico: chi fu travolto in quella battaglia si sveglia ancora di soprassalto in piena notte e crede di sentirne le esplosioni, anche a anni di distanza. Ma questa non è più l’Europa del 2011. Da quattro anni la Commissione ha permesso all’Italia di allentare i suoi saldi di bilancio di oltre 40 miliardi, al netto degli interessi sul debito e delle oscillazioni dell’economia. Quella risorse andavano usate meglio per creare un terreno più favorevole al lavoro, alla produzione, all’investimento e alla scuola: ma l’Italia le ha spese in deficit e non ha subito procedure a Bruxelles per questo. Il governo deve smettere di dire che l’Europa sta imponendo l’austerità, perché non è più vero da anni.
Allo stesso modo, è risibile sostenere che la Bce non aiuti: dal 2015 ha fatto comprare alla Banca d’Italia 361,7 miliardi di titoli del Tesoro. Quando allo spirito anti-italiano in Europa, non c’è Paese più rappresentato ai vertici finanziari. Sono italiani il presidente della Bce (Mario Draghi), il futuro presidente della vigilanza bancaria europea (Andrea Enria), il capo della direzione Economia e finanza della Commissione (Marco Buti) e il presidente della commissione economica dell’europarlamento (Roberto Gualtieri). Nessuno di loro ha l’aria della vittima di un pregiudizio etnico.
Ciò che complica ancora di più il quadro, sono però i segni percettibili che anche da Bruxelles qualcuno si stia illudendo di combattere una guerra di ieri. Dentro e attorno alla Commissione si è deciso di forzare al massimo i tempi e i toni delle procedure contro l’Italia, anche a costo di piegare a questo scopo la logica delle previsioni economiche di qualche giorno fa (neanche l’Ufficio parlamentare di bilancio di Roma, che è indipendente e bersagliato dal governo, le condivide). Perché questa voglia di assecondare la drammatizzazione, che a sua volta acuisce lo stress sui mercati?
La guerra di ieri, vista da Bruxelles, è quella che per l’Italia alla fine prevede sempre una tregua firmata di un governo di non eletti: Carlo Azeglio Ciampi (1993), Lamberto Dini (1995) o Mario Monti (2011). Un’altra guerra di ieri, sempre vista da Bruxelles, è anche quella in cui si esercita la massima pressione anche finanziaria su un governo errante fino a indurne la redenzione: vedi la Grecia di Alexis Tsipras del 2015. Queste però non sono l’Italia e l’Europa del 2011 o del 2015. Qui c’è in gioco l’ottava economia del mondo, che ha appena eletto un nuovo ceto politico indisponibile a soluzioni tecnocratiche e in parte disposto a scommettere il tutto per tutto alla cieca. Da entrambe le parti, combattersi come fossimo in un eterno ritorno di scenari passati può diventare irresponsabile. I leader dei due fronti dovrebbero partire dalle cose semplici che non hanno ancora fatto: parlarsi, e immaginare insieme un plausibile finale di partita.