Quando era segretario del partito nella provincia di Liaoning, l’attuale primo ministro di Pechino Li Keqiang capì che non poteva più prendere decisioni sulla base di quanto gli riferivano i suoi sottoposti. Le statistiche sulla crescita o sugli investimenti erano false. Li sapeva che in Cina i funzionari locali sono valutati sulla base dei risultati dell’economia nella loro zona, dunque la tentazione di alterare la realtà per ingraziarsi i superiori per loro è irresistibile. Ancora oggi la somma del prodotto interno lordo dichiarato da ogni unità territoriale cinese risulta superiore al Pil del Paese.
Li decise di prodursi da solo qualche statistica. Stimò il consumo di elettricità, il volume del trasporto merci sui treni e la quantità di nuovi prestiti della banche alle famiglie e alle imprese. Da allora quel dato si chiama il «Keqiang Index» e corregge sistematicamente al ribasso il Pil di ciascuna provincia. Ma esso stesso potrebbe risultare ancora troppo favorevole. Per questo Wei Chen, Xilu Chen e Zheng Song dell’Università cinese di Hong Kong e Chang-Tai Hsieh dell’Università di Chicago hanno cercato di correggere l’indice del premier di Pechino iniettando un’altra dose di realismo. Hanno provato a aggiungere altri indizi: l’immagine notturna da satellite delle luci accese, il gettito fiscale, il fatturato degli scambi con il resto del mondo.
Il risultato dell’indagine dei quattro economisti è stato pubblicato questo mese dalla Brookings Institution, il più importante think tank di Washington: dal 2008 al 2016 il Pil cinese va corretto al ribasso in media dell’1,7% ogni anno. Il prodotto lordo delle costruzioni sarebbe al ristagno e il gettito dell’imposta sul valore aggiunto dell’industria sotto zero dal 2014. Dal momento delle Grande recessione nel 2008 la Cina ha continuato a crescere, secondo le nuove stime, ma a un ritmo medio vicino al 6% e non all’8%. Ne deriva che anche il debito totale di famiglie, Stato e imprese, già oggi ufficialmente ad un preoccupante 250% del Pil, sarebbe più alto.
Può apparire paradossale che non esistano certezze sulla seconda economia del mondo, responsabile per quasi un terzo dell’andamento degli scambi e della produzione nel pianeta. Ma forse neanche l’indice di Keqiang corretto da Brookings dice tutta la verità, perché non è certo che siano corretti i dati sui consumi elettrici, sulle tasse o sul traffico merci. Gli zelanti funzionari di partito potrebbero aver mentito anche su quelli. È il sospetto di Andreas Rees, economista di Unicredit, che per capirci qualcosa di più ha cercato informazioni che i cinesi non possono manipolare: le vendite degli altri Paesi alla Repubblica popolare. È da qui che emerge come la Cina oggi sia una grande potenza nel pieno di una transizione difficile. Forse non a crescita zero, ma molto sotto il dato ufficiale del 6,5% sul 2018.
Rees nota che l’export di Taiwan e della Corea del Sud verso la Repubblica popolare all’inizio del 2019 è in calo del 6 o 7% rispetto a un anno fa. Non è un dettaglio da poco: la Cina compra dai suoi due vicini un quinto delle proprie forniture dall’estero, dunque sta comprimendo i consumi e gli investimenti. Anche l’import dagli Stati Uniti è giù quasi di un terzo rispetto a un anno fa, benché il calo si spieghi soprattutto con la guerra commerciale in corso. Quanto all’Europa, solo un grande Paese registra nel 2018 un calo nel suo export verso la Cina: l’Italia, che fattura con Pechino 13 miliardi di euro l’anno ma nel 2018 ha perso il 2,3%; la Germania fattura quattro volte di più e le sue vendite continuano a crescere a ritmi furibondi.
Dai tentativi di Brookings e di Rees di ricostruire una plausibile verità sulla Cina emerge il profilo di una grande economia, forse destinata a diventare prima al mondo, ma oggi in difficoltà. Pesa il debito accumulato da migliaia di imprese di Stato, tanto inefficienti quanto utili a distribuire posti di comando alle élite di partito. Il Paese con cui l’Italia si prepara a sottoscrivere un accordo seguito in tutto il mondo resta molto forte. Ma meno sicuro di sé, forse, di come appaia.