Cambiare tutto per non cambiare niente. I giovani leader che si agitano in questi giorni per provare a formare un governo sono l’ennesima fotografia di un Paese con lo sguardo rivolto al passato. Se negli ultimi anni si era accesa una qualche illusione di miglioramento nelle modalità di selezione della classe dirigente e nelle priorità d’indirizzo della politica economica, oggi questa speranza si è inesorabilmente spenta. A sostituirla c’è soltanto una sua gattopardesca macchietta.
Certo, l’età media dei parlamentari è la più bassa della storia repubblicana: 44 anni per la Camera e 52 per il Senato, secondo uno studio dell’agenzia AgiI e di Openpolis. Due terzi dei neo-eletti non avevano un seggio nella scorsa legislatura e circa un terzo non ha mai avuto un incarico politico a livello nazionale, locale o europeo. Durante le consultazioni per formare il nuovo governo, davanti al presidente Sergio Mattarella sono sfilati il trentunenne Luigi Di Maio, il trentanovenne Maurizio Martina e il quarantacinquenne Matteo Salvini. A parte Silvio Berlusconi, la facciata della politica italiana non è mai stata così fresca.
Ma a che serve tutto questo cambiamento? A ben poco, a giudicare dalle idee che lo accompagnano. La politica economica proposta dai partiti sembra un revival degli anni ’70 e ’80. Davide Casaleggio, il quarantunenne gestore del sistema operativo del Movimento 5 Stelle, teorizza il ritorno dello Stato imprenditore. Carlo Calenda, suo quasi coetaneo e ministro dello Sviluppo economico, lo mette in pratica, promuovendo l’entrata di Cassa Depositi e Prestiti in Telecom. Salvini riscopre i dazi, dimenticando che siamo fra i principali Paesi esportatori d’Europa, e riesuma l’idea che i tagli delle tasse si ripaghino sempre da soli, smentita da qualsiasi studio economico degli ultimi 40 anni.
Non solo. Alcuni giovani leader sembrano ben poco preoccupati del costo che le loro bislacche idee in materia pensionistica avranno per i loro coetanei. Un eventuale accordo di governo fra la Lega e i 5 Stelle avrebbe come naturale punto di sintesi l’abolizione della legge Fornero, con un abbassamento drastico dell’età pensionabile. La conseguente esplosione della spesa pensionistica ridurrebbe lo spazio per interventi a sostegno delle giovani famiglie — la categoria sociale per cui il rischio povertà è più alto. Di Maio ama paragonarsi ad Alcide De Gasperi, ma il rischio è che passi alla storia come un novello Mariano Rumor, il primo ministro che introdusse le baby-pensioni.
Non cambiano poi le modalità di selezione della classe dirigente: i 5 Stelle vantano una loro presunta diversità, ma a essere privilegiata è comunque la lealtà al Movimento rispetto alle competenze e alla capacità di governo. Non si spiegherebbe altrimenti l’espulsione del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, forse l’unico bravo amministratore prodotto dai grillini.
Matteo Renzi, segretario uscente del Pd, ha rappresentato la delusione più cocente. Quattro anni fa, Renzi avrebbe potuto compiere un’operazione simile a quella intrapresa da Emmanuel Macron in Francia, che ha spazzato via i vecchi gruppi dirigenti dei partiti per costruire una nuova classe di governo. Dopo un iniziale tentativo di rinnovamento, Renzi ha preferito rinchiudersi in un bunker composto di lealisti e di cacicchi. La “rottamazione” è diventata presto una “restaurazione”.
La leadership di Salvini, infine, è basata sull’esaltazione dell’ignoranza. Se Macron affida a Cédric Villani, uno dei migliori matematici viventi, la strategia del governo francese sull’intelligenza artificiale, Salvini si vanta pubblicamente di non saper fare le disequazioni. Dai vaccini all’economia, l’uomo di strada ne sa quanto l’esperto.
La generazione schiacciata dal debito pubblico e da uno dei sistemi di welfare più iniqui d’Europa ha dunque fallito la sua rivoluzione. Dal prossimo governo, qualunque esso sia, sarà difficile aspettarsi null’altro se non una stanca prosecuzione del declino di questi ultimi venticinque anni. Per quei giovani italiani in cerca di un Paese più moderno resta soltanto una nuova, lunga attesa o la fuga. La speranza di un rinnovamento reale, e non di facciata, rimarrà ancora una volta tradita.