Come sarebbe la nostra economia senza quelli che ci sembrano i lacci e lacciuoli dell’Europa? La Ue ci impone la taglia minima delle vongole per poterle pescare (il contenzioso tra Roma e Bruxelles sui millimetri è durato anni), ma ha anche ridotto il costo delle telefonate dall’estero, abolendo il roaming, e multato Microsoft per abuso di posizione dominante o obbligato i big del web a rispettare la privacy dei cittadini europei. Stavamo davvero meglio prima? Ma soprattutto, quand’era il prima? Quando c’era solo la Cee ovvero la Comunità economica europea di cui facevano parte solo sei Paesi? O prima del mercato unico europeo come lo conosciamo oggi, che è entrato in vigore il primo gennaio del 1993?
L’euro è davvero la causa di tutti i mali? Secondo l’ultimo Eurobarometro, il 65% degli italiani è favorevole alla moneta unica. Ma in caso di referendum nel proprio Paese sulla falsariga di quello della Brexit, il 44% degli italiani voterebbe per restare mentre il 32% è indeciso. Ora, dopo l’inizio delle trattative per la Brexit, solo il 35% degli inglesi voterebbe per andarsene. È il pragmatismo britannico. Lasciamo dunque da parte tutte le considerazioni possibili sull’euro, che agli italiani piace, per valutare come sarebbe lo scenario senza Ue (anche se le due cose sono legate in modo indissolubile). La prima osservazione è che cambierebbe il mercato potenziale a cui le nostre aziende si rivolgono. Ma anche la forza dei cittadini-consumatori. Gli italiani sono circa 60 milioni, la popolazione della Ue è intorno ai 510 milioni. Attualmente, quindi, il mercato «domestico» senza barriere doganali o commerciali pesca in un bacino di oltre mezzo miliardo di persone, senza Ue si ridurrebbe a 60 milioni, perché il mercato unico presuppone la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi, dei capitali e la liberalizzazione dei pagamenti. Certo le nostre imprese potrebbero comunque esportare negli altri Paesi europei, ma non far parte della Ue vuole dire tornare ai dazi, seguendo le regole del Wto oppure seguendo eventuali accordi bilaterali che dovrebbero essere negoziati con Bruxelles, come sta facendo Londra in vista della Brexit (con grandissima fatica), e con i Paesi extra Ue.
Dati alla mano, «l’export italiano verso la Ue nel 2017 è stato di circa 250 miliardi di euro — spiega Alessandro Terzulli, capoeconomista di Sace —. I potenziali consumatori che potranno acquistare i beni dei Paesi Ue e dunque anche quelli italiani grazie agli accordi di libero scambio siglati o in corso di negoziazione sono 2,5 miliardi». Cosa vuol dire? «Le nostre esportazioni extra Ue nel 1992 sono state pari a circa 57 miliardi, nel 2017 invece di circa 195 miliardi». Si potrebbe obiettare che senza Ue saremmo più competitivi perché non dovremmo rispettare tutta una serie di regole. Ma saremmo soli contro il resto del mondo, metteremmo i dazi e anche gli altri imporrebbero tariffe sui nostri prodotti. I dazi sulle nostre scarpe, ad esempio, potrebbero arrivare fino al 13% con una notevole perdita di competizione per la nostra industria. E poiché siamo un’economia manifatturiera, cioè siamo forti nella trasformazione, i vantaggi dell’export dovrebbero fare i conti con il maggiore costo dell’import. Le nostre imprese si muovono in un contesto globale: potremmo provare a fare i cinesi d’Europa, ovvero bassi stipendi, bassi requisiti di sicurezza e bassi requisiti ambientali. Ma comunque ci sarebbe la concorrenza della Cina «originale».
Per sopravvivere le aziende hanno bisogno di essere pagate per i servizi che svolgono. È una direttiva europea che tutela le imprese sui tempi di pagamento che le amministrazioni pubbliche e i privati devono rispettare. Non si vive di solo commercio. Le banche sono un settore vitale per l’economia di un Paese. Semplificando, un sistema bancario autarchico ha lo svantaggio dei tassi di rifinanziamento più alti, ma potrebbe presentare il vantaggio di non dover rispondere ad alcuni requisiti (uno fra tutti il livello di capitalizzazione) e in caso di difficoltà lo Stato potrebbe mettere i soldi per sistemare le cose, spalmando così le perdite su tutti i contribuenti, ovvero anche su coloro che non hanno mai investito e guadagnato con quell’istituto di credito. La direttiva europea sul bail-in, tanto demonizzata, ha proprio l’obiettivo di mettere chiarezza su come si dividono le perdite spostando il carico dal contribuente all’investitore bancario. Quando non c’era la Ue non c’era nemmeno l’assicurazione sui depositi fino ai 100 mila euro. E prima del mercato unico i sistemi di pagamento avevano costi differenti, il bonifico internazionale era più caro di quello nazionale. La Ue ha imposto anche un tetto sulle commissioni per il pagamento elettronico. L’apertura del mercato vuol dire più concorrenza. Questo va a vantaggio del consumatore. Senza Ue si torna al conto corrente prima dell’Iban con tutto quello che voleva dire.
Nemmeno più ci ricordiamo di come fosse l’agricoltura senza l’Europa, è uno dei settori più sussidiati. Il riconoscimento all’estero dei prodotti Dop e Igp, con la protezione dei marchi non ci sarebbe. Dovremmo rinegoziare tutto. E per quanto riguarda lo sviluppo delle nostre regioni meridionali, non ci sarebbero più i fondi strutturali. È vero che siamo un contributore netto, ma siamo anche il secondo Paese, dopo la Polonia, per valore assoluto di fondi ricevuti. Bruxelles ci obbliga a dare priorità di investimento al Sud, di fatto la politica di coesione è diventato il principale strumento di sviluppo del Meridione. Senza Ue potremmo però distribuire aiuti di Stato a nostro piacimento, continuando a fare come in passato. Ma guardando ai risultati ottenuti, si pensi ad Alitalia, le imprese aiutate non sono diventate più competitive. L’ultima stagione delle partecipazioni statali è significativa.
Sono solo alcuni esempi di quanto ci serva la Ue in economia. Il rischio, però, è dimenticare e sottovalutare il risultato più importante dell’alleanza tra i Paesi europei: 70 anni di pace. Nella storia del Vecchio Continente è il periodo più lungo senza conflitti tra i 28 Stati membri.