Con l’ingresso nel terzo millennio la comunità scientifica internazionale ha provato a comunicare con forza la necessità di ripensare il nostro modello di crescita per affrontare le grandi sfide sociali e la crisi ambientale che sta attraversando il pianeta. Il tasso di utilizzo delle risorse naturali è ampiamente superiore a quello di rigenerazione e diversi parametri che misurano lo stato di salute del pianeta appaiono ormai compromessi; tra questi, lo stato del clima, l’acidificazione degli oceani, la presenza di ozono nella stratosfera, l’impiego di acqua dolce. Il superamento di valori limite, detti planetary boundaries, comporta l’insorgere di rischi legati alla perdita di resilienza del sistema Terra. Le conseguenze di questo processo sono ancora difficili da prevedere, ma è chiaro che senza un rapido cambio di rotta l’umanità rischia seriamente di compromettere il proprio livello di benessere già dal prossimo decennio. Il nuovo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change conferma che la situazione in cui ci troviamo oggi è senza precedenti nella storia dell’umanità, e che il superamento della soglia di 1,5° C di temperatura porterebbe a cambiamenti irreversibili nello stato del pianeta. In sintesi, il capitale naturale è diventato una risorsa strutturalmente scarsa, e – purtroppo – non sostituibile. Non abbiamo a disposizione un Plan B.
Lo sviluppo sostenibile
In realtà, il tema dello sviluppo sostenibile non è nuovo. Da oltre 25 anni organizzazioni internazionali quali le Nazioni Unite, la World Bank e l’OECD, e policy maker influenti come l’Unione Europea hanno puntato l’attenzione sulla necessità di modificare i nostri modelli di produzione e consumo, avendo come obiettivo ultimo quello di proteggere la funzionalità degli ecosistemi naturali e di garantire una maggiore equità infra- e inter-generazionale. Il concetto di sviluppo sostenibile è normalmente associato alla Conferenza sull’ambiente e lo sviluppo delle Nazioni Unite, nota al pubblico come «summit di Rio», tenutasi nell’ormai lontano giugno del 1992, a cui parteciparono oltre 170 governi e circa 17.000 persone. La necessità di modificare in modo profondo il nostro modello di sviluppo, visti i limitati risultati delle azioni sin qui intraprese dal mondo politico, delle imprese e della finanza, ha reso necessario definire e promuovere una nuova agenda per il governo del pianeta. Il nuovo quadro di riferimento, approvato nel settembre del 2015 dai 193 Paesi dell’ONU, propone un programma di azione internazionale fondato su 17 obiettivi – detti in inglese Sustainable Development Goals (SDG), suddivisi in 169 target e in oltre 240 indicatori. Il nuovo piano per il rilancio della sostenibilità punta a coinvolgere tutte le componenti della società nella definizione di una strategia globale e nell’implementazione di una serie di iniziative concrete, dirette a raggiungere i 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile. In particolare, l’Agenda 2030, pur rivolgendosi a diverse categorie quali istituzioni, società civile e singoli cittadini, vuole promuovere una spinta innovativa da parte della comunità delle imprese e della finanza. I nuovi SDG riconoscono a questi soggetti un ruolo chiave nella guida al cambiamento mediante lo sviluppo dell’innovazione, di nuovi modelli di business più sostenibili, di nuove logiche di investimento e di partnership con gli altri attori (ong, ricerca, istituzioni).
L’economia circolare
In questo quadro si inserisce il tema oggetto del dossier di questo numero di Economia & Management: l’economia circolare (di seguito, EC). Un obiettivo fondamentale per un cambio di rotta verso una maggiore sostenibilità ambientale, sociale ed economica è senza dubbio quello di modificare in modo sostanziale i nostri modelli di produzione e di consumo. Questa trasformazione è formalizzata nel testo del SGD n. 12, che recita «Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo», ma è rintracciabile anche in molti altri SDG come il n. 9 (Industry, Innovation and Infrastructure), il n. 7 (Affordable and Clean Energy) e il n. 8 (Decent Work and Economic Growth). Ma cosa significa esattamente modelli di produzione e consumo sostenibili? In primo luogo, è necessario aumentare l’efficienza nella produttività delle risorse e dell’energia, fare di più con meno, usare meno capitale naturale per unità di valore generato, recuperare e riciclare gli scarti e i rifiuti. Inoltre, occorre pensare a soluzioni che siano economicamente e tecnologicamente praticabili, che generino utilità sociale per i lavoratori, che siano replicabili e scalabili. Da ultimo, nel SDG n. 12 si fa riferimento sia alla fase di produzione di beni e servizi, sia a quella di consumo. Da un lato, ciò significa ripensare la sostenibilità delle filiere di produzione, in modo da minimizzare tutti gli impatti generati e le conseguenze sui sistemi socio-ecologici. Dall’altro, l’attenzione si focalizza sia sul prodotto/servizio nella fase di utilizzo e nel post-consumo, sia sul ruolo del cittadino-consumatore, che diventa un attore fondamentale per garantire il recupero delle risorse e una maggiore sostenibilità sociale. In altri termini, con l’SDG n. 12 le Nazioni Unite aprono in maniera evidente a una messa in discussione del nostro sistema socio-economico, sin qui sviluppato e consolidato secondo una logica strettamente lineare, in cui le risorse sono ipotizzate infinite e a basso costo e dove i sistemi socio-ecologici sono in grado di assorbire i nostri inquinanti in maniera illimitata. La soluzione proposta è quella di un modello circolare, in cui l’attenzione alle inefficienze, alla scarsità del bene ambiente e alle iniquità sociali diventa parte della logica di progettazione dei prodotti/servizi, e in cui le filiere di produzione e consumo vengono riprogettate in modo da chiudere i percorsi delle materie prime, rendendo i rifiuti e gli scarti nuove risorse da valorizzare in altre catene del valore.
Le radici del concetto
L’idea dell’EC ha radici profonde in quello che viene chiamato pensiero «ecologico» e nella moderna ecologia. Già negli anni Sessanta studiosi come Kenneth Boulding e Nicholas Georgescu-Roegen avevano sviluppato l’idea di un’economia come sistema chiuso, diversamente dall’approccio neo-classico che si basa sull’ipotesi di un sistema aperto in cui le risorse sono abbondanti e sostituibili. Entrambi, partendo da concetti quali la termodinamica e le teorie sistemiche, avevano messo in discussione il paradigma della crescita illimitata introducendo l’idea di limite all’utilizzo di capitale naturale. In particolare Boulding, in un articolo dal titolo «The Economics of the Coming Spaceship Earth», aveva anticipato i fondamenti dell’economia circolare, introducendo la metafora del cowboy e dell’astronauta. L’economia del cowboy è aperta, lineare, e si basa sul presupposto dell’infinita disponibilità di risorse. Il cowboy si sposta nelle praterie con le sue mandrie, utilizzando i servizi degli ecosistemi, senza preoccuparsi degli impatti generati. L’abbondanza di risorse permette al cowboy di vivere in modo «romantico» e di non pensare agli effetti delle proprie azioni. Diversamente, la nostra economia è oggi come quella dell’astronauta, e il pianeta Terra è la nostra navicella spaziale. Ogni azione deve essere attentamente progettata in quanto, come in un’astronave, le risorse sono limitate e l’inquinamento retroagisce sul nostro stato. L’economia dell’astronauta è un’economia chiusa in cui i processi di produzione e consumo devono diventare circolari, minimizzando gli scarti e valorizzando al meglio le risorse. Un altro contributo storico al concetto di economia circolare fu quello dato dal biologo americano Barry Commoner, che nel 1971 scrisse un volume intitolato The Closing Circle in cui contrapponeva la logica dei processi naturali, che funzionano con cicli chiusi (il ciclo del carbonio, il ciclo dell’acqua, il ciclo dell’ossigeno), a quella dell’economia e dei processi industriali e di consumo, lineari e aperti. L’introduzione di sostanze quali le materie plastiche, gli insetticidi, i solventi chimici o il largo impiego dei combustibili fossili, estranei ai cicli naturali, hanno progressivamente alterato la dinamica dei processi del nostro pianeta, con effetti sulla resilienza ecologica senza precedenti. La metafora di Boulding, l’approccio sistemico di Georgescu-Roegen e la visione ciclica di Commoner gettarono le basi per il concetto di economia circolare, ispirando gli economisti ambientali David Pearce e Kerry Turner, che nel 1989 lo formalizzarono compiutamente nel bestseller Economics of Natural Resources and the Environment, ma influenzarono anche gli studi di altri autori quali Robert Frosch and Nicholas Gallopulos e di Robert Ayres, che sul finire degli anni Ottanta e negli anni Novanta elaborarono il concetto di ecologia industriale e quello di simbiosi industriale.
L’economia circolare oggi
Da allora sono passati molti anni, lo stato ambientale del pianeta è ulteriormente peggiorato come effetto della crescente pressione antropica, ma è anche emersa la consapevolezza di essere arbitri del nostro destino. L’EC propone un nuovo paradigma per ri-progettare la nostra società e la nostra economia, riconoscendo l’interdipendenza tra economia, società e ambiente e costruendo proprio su questa interdipendenza il nostro futuro. Ciò significa intraprendere un percorso tutt’altro che semplice, che ci impone un profondo cambiamento orientato a innovare il design e la progettazione dei prodotti, come pure i modelli di produzione e di consumo oggi dominanti, per cercare di chiudere quel cerchio alla base dei cicli della natura, che abbiamo spezzato. Affinché l’EC si possa tradurre da modello economico a business practice (pratica di business) è però necessario un altrettanto importante lavoro di concettualizzazione da parte delle discipline economico-manageriali, l’ambito in cui anche E&M si muove. L’osservazione della letteratura denota un’ancora insufficiente presenza del pensiero manageriale nel dibattito. Su questo punto il recente lavoro di Peter Lacy e di Jacob Rutqvist ha l’indubbio pregio di portare un contributo di individuazione e di formalizzazione delle attività necessarie da introdurre all’interno della catena del valore delle imprese per modificarla da lineare a circolare, come nel caso della reverse logistic e del remanufacturing, e della conseguente proposta di nuovi modelli di business che permettano di implementare delle pratiche competitive e redditizie. Molto deve essere ancora fatto e scritto sulle condizioni di contesto che possano favorire la transizione verso il paradigma economico circolare. Implicando l’EC un approccio sistemico, è fondamentale che tutti gli elementi abilitanti siano attivati. Tra di essi l’innovazione tecnologica, l’innovazione manageriale, i già citati modelli di consumo e la finanza. Questi temi, e alcuni di essi in particolare, qual è il caso del rapporto tra l’EC e il capitale necessario per finanziare la transizione, rappresentano altrettanti campi di frontiera su cui è auspicabile che la ricerca scientifica aziendalistica si possa orientare nei prossimi anni al fine di offrire un contributo fattivo di orientamento dei processi di cambiamento che dovranno affrontare buona parte dell’economia e, più in particolare, alcuni settori di grandissima rilevanza quali l’energia, la chimica, i trasporti, l’agricolo e alimentare, il tessile, il packaging e le costruzioni.
*Economia&Management (SDA Bocconi), n 5-6, settembre/dicembre 2018