Francesco Pugliese è l’uomo che ha portato Conad a 13,5 miliardi di giro d’affari e a una quota di mercato del 12,9%. Questo oggi, che in realtà va letto come «ieri»: fosse già operativa l’integrazione della rete italiana Auchan, dopo il deal da un miliardo firmato nel maggio scorso e al momento in fase di istruttoria all’Antitrust, i numeri del 2018 e il peso sulla grande distribuzione italiana andrebbero riscritti. Il fatturato salirebbe oltre i 17 miliardi, la quota al 18%. Conad (Consorzio nazionale dettaglianti) conquisterebbe – conquisterà, in effetti: in attesa del closing il condizionale è obbligato, ma niente lascia pensare a intoppi insormontabili – il primo posto del Carrello Italia. E con un ampio distacco, considerato che ai concorrenti della Coop era fin qui bastato il 13,7% per difendere la leadership.
Lei conosce bene i Champions dell’agroalimentare. Molti sono sui vostri scaffali, sono cresciuti (anche) insieme a voi. Qual è, la marcia in più che hanno? E perché, tra le 57 mila aziende del settore, tantissime producono eccellenza, ma non ottengono gli stessi risultati, né di sviluppo né di redditività?
«Analizzi le vendite dei migliori. Troverà che i driver della crescita sono due: export e produzione di private label, ossia per conto terzi».
Ok. Ma anche queste due cose le fanno in molti. O almeno ci provano.
«Esatto: ci provano. È che non sempre si ha chiaro com’è cambiato il mercato negli ultimi vent’anni. Oggi il livello qualitativo medio delle imprese si è elevato tantissimo, la tecnologia è accessibile a tutti e dunque è ormai comune, il marketing come strumento di affermazione di un marchio costa tantissimo, cifre improponibili per una piccola azienda, e però non fa più la differenza nella testa dei consumatori».
Perché sono più scafati?
«Anche, certamente. Con Carosello bastava il pulcino nero, oggi si bada ad altro. E torniamo a quello che realmente fa la differenza. I marchi si costruiscono nella testa del consumatore, ma i prodotti si costruiscono in fabbrica e lì si costruisce, di conseguenza, il nuovo, vero fattore di successo: la reputazione».
Conta più di ieri?
«Diciamo che si misura su parametri diversi: l’attenzione al territorio, all’ambiente, alle persone. Sostenibilità, per riassumerla in una parola».
Un tasto sul quale battono ormai tutti, grandi gruppi inclusi. I quali, peraltro, hanno i mezzi per amplificare la grancassa. Un «piccolo» quei mezzi non li ha, e allora capita (spesso) che sia avanti anni luce ma che a saperlo siano in pochi.
«Di nuovo: i fattori in campo adesso sono completamente diversi da quelli di solo pochi anni fa. Certo, tutti parlano di sostenibilità. Ma se prendessimo i bilanci di molte grandi aziende, vedremmo che la sostenibilità è spesso soprattutto un tema di marketing. Se invece va da uno di questi piccoli imprenditori, quello che scoprirà è che non racconta storie: tutto ciò che dice di aver fatto per il territorio o le persone c’è, ed è visibile. È così che ci si crea una reputazione: con un tipo di credibilità che nessuna campagna pubblicitaria può costruire».
Quindi è fondato un altro «credo» di molti Champions: il global si costruisce dal local, nel senso che non può esserci vero successo d’impresa se non c’è vero legame con il territorio e con le persone che ci vivono.
«Ne sono convinto da anni. In parecchie di queste imprese c’è lo spirito di Adriano Olivetti: sarebbe felice, di vedere come quella che era considerata un’utopia sia diventata una realtà moltiplicata».
C’è un limite, nel nostro «glocal» agroalimentare: i falsi, vale a dire il fenomeno dell’«italian sounding», il «look alike» hanno un giro d’affari che, secondo Coldiretti, equivale ai due terzi dell’intera produzione made in Italy.
«È un problema, certo. Ma siamo un popolo con il vizio di correre a distribuire colpe, senza mai assumercene. I falsi nascono quando gli originali non sono in grado di soddisfare la domanda. La dirò in modo brutale: l’italian sounding dimostra da un lato l’alta richiesta di prodotti made in Italy da parte dei consumatori del mondo, dall’altro l’incapacità del nostro agroalimentare di rispondere».
Con tutte le aziende che abbiamo?
«Proprio “a causa” di tutte le aziende che abbiamo. Siamo il Paese nato dai Comuni, non siamo mai stati capaci di metterci davvero insieme. Qui il limite è particolarmente evidente. Se a qualcuno non fosse chiaro, lo riassumo con quello che mi ha detto un giorno il numero due di Walmart: “Se io volessi comprare una sola forma di parmigiano per ognuno dei miei punti vendita in America, non troverei nessuno in grado di assicurarmi la fornitura”. La rende, l’idea?».
La rende, sì. Fin troppo bene.
*L’Economia, 25 novembre 2019