Giuseppe Provenzano, siciliano di 37 anni, dottorato di Diritto pubblico alla Scuola superiore Sant’Anna — una delle poche istituzioni davvero meritocratiche, statali e di élite del Paese — ha ricevuto nelle sue mani dal 5 settembre un calice potenzialmente molto avvelenato: ministro per un Sud che da anni fa segnare le peggiori performance economiche, di occupazione e di tutela dell’ambiente — per esempio nella gestione dei rifiuti — di tutta l’area euro. Con in dote una lunga lista di pericolose crisi industriali aperte, dall’Ilva di Taranto alla Whirlpool di Napoli la cui chiusura è ormai imminente.
Ministro, sempre più c’è chi propone per il Sud un avvenire da meta turistica e di produzioni alimentari di nicchia. Che ne dice?
«Che non esiste Sud senza industria. Agricoltura, turismo e cultura hanno grandi potenzialità inespresse, e magari pure l’allevamento delle cozze. Ma un’area di venti milioni di abitanti senza produzione non ha futuro. Possiamo discutere di cosa e come produrre, ma il piano per il Sud che vogliamo presentare dovrà puntare a reindustrializzare, nel segno dell’innovazione e della sostenibilità ambientale. Non a vagheggiare un luogo dove passare solo le vacanze».
Se rivitalizzare l’industria è l’obiettivo, togliere lo scudo penale per i manager sul risanamento ambientale dell’Ilva lo contraddice. Era una precondizione all’investimento per ArcelorMittal.
«Un Paese che cambia costantemente le regole del gioco non fa un buon servizio allo sviluppo. Ma ricordo che per l’articolo 51 del codice penale chiunque agisce nell’adempimento di un dovere come per il piano ambientale non è punibile, tantomeno per colpe di altri e errori commessi in precedenza. Dunque una tutela c’è. Gli accordi con ArcelorMittal restano validi. Non ci sono alibi o pretesti».
Allora perché avete confermato il decreto del governo M5S-Lega, che vuole togliere proprio quello scudo penale?
«Si era creata una situazione un po’ delicata in Senato e si trattava di convertire un decreto di un governo precedente. C’era rischio politico e si è preferito procedere così».
Significa che in fondo non ci credete e intendete superare quella norma voluta da M5S?
«Trovo che il destino di migliaia di lavoratori non possa essere appeso alle dinamiche interne di un gruppo parlamentare. Il Paese deve avere la maturità di assumere impegni stabili. Il nuovo governo è vincolato da un ordine del giorno del Pd approvato in Parlamento a garantire attività produttiva, salvaguardia dell’occupazione, ambientalizzazione degli impianti e salute dei cittadini. Si può fare, come accade altrove. Se sarà necessario, anche con un provvedimento ad hoc. Nel governo c’è piena condivisione della natura strategica dell’ex Ilva, altro che preparare la chiusura».
Prepara un decreto per reinserire la tutela penale per i manager richiesta da ArcelorMittal?
«Non mi risulta che l’azienda lo stia chiedendo. Parlavo di un provvedimento per garantire tempi certi per l’ambientalizzazione, per aprirsi a innovazioni industriali dettate da nuove condizioni oggettive di mercato. Per tutelare lavoro e salute, insomma. Se serve io sono pronto. Ma ricordo che Taranto non è solo l’acciaio. Lavoriamo a rilanciare il porto con la Zes, a rigenerare la città».
Whirlpool a Napoli è un’altra crisi urgente. Non è che il governo in realtà manca degli strumenti per gestirla?
«È inaccettabile che un’azienda cambi i piani industriali concordati senza alcuna spiegazione. Ed è inaccettabile che si cedano rami di azienda senza garanzie sul futuro, lasciando che tutto ricada sui lavoratori. L’Italia deve farsi rispettare e per farlo ci dobbiamo attrezzare con sanzioni efficaci».
Ministro, la gran parte delle perdite europee di Whirlpool in Europa sono concentrate a Napoli. Sanzionare un’azienda perché va male e deve chiudere non finirà per allontanare gli investitori in futuro?
«Concordare un piano industriale e poi dopo sei mesi smentire la parola data non è un diritto, per nessun investitore. Come governo, noi possiamo pensare ad alcuni strumenti per sederci al tavolo con più forza negoziale. Per esempio, è interessante l’esperienza della legge Florenge in Francia, che impone a un investitore che voglia dismettere un sito di trovare prima un acquirente e motivare le sue risposte. Questo permette di dare continuità produttiva e tutelare l’occupazione».
Non sarebbe più utile se l’Italia si dotasse di fondi per entrare nel capitale delle aziende in crisi, per ristrutturare e rivendere in tempi brevi?
«Servono entrambe le cose. Servono strumenti di politica industriale e mezzi per ostacolare operazioni di natura predatoria. Adesso su Whirlpool abbiamo l’urgenza di intervenire, poi vedremo».
C’è chi dice che oggi il ministero dello Sviluppo (Mise) non abbia la capacità amministrativa di gestire i 265 tavoli di crisi aperti. Lei che ne pensa?
«Non c’è dubbio che dobbiamo rafforzare le strutture che si occupano delle crisi per risolverle. Anche il decreto in corso di conversione lo prevede. Andranno coinvolti anche altri ministeri e penso che il Mise sia d’accordo. Il mio collega Stefano Patuanelli ha dato segni importanti del suo impegno in questo senso. Ma bisogna darsi una strategia oltre le crisi, per investire e diffondere quel Sud produttivo e innovativo che serve all’Italia, anche al Centro-Nord».