L’Italia delle fabbriche alla fine è ripartita ieri con 4,4 milioni di lavoratori che si sono aggiunti ai loro colleghi che non avevano mai smesso. A sbloccare l’impasse un contributo importante è arrivato dal basso con gli accordi di contrattazione aziendale sulla sicurezza che hanno arricchito i protocolli romani, grazie anche al coinvolgimento di virologi come Roberto Burioni e Giuseppe Remuzzi.
Se prendiamo come test l’industria alimentare, rimasta aperta lungo il lockdown, il bilancio — fatto proprio ieri da Marco Lavazza — suona positivo: le aziende sono riuscite a garantire la sicurezza dei dipendenti, l’assenteismo è stato basso, il ricorso allo smart working molto frequente e apprezzato e gli orari sono stati rimodulati su tre turni per sette giorni. Vedremo se anche negli altri settori, a cominciare dalla meccanica, l’indirizzo si confermerà e soprattutto se le barriere anti-contagio si dimostreranno efficaci come promesso. L’adozione di misure di distanziamento fisico in alcune lavorazioni avrà delle ricadute sulla produttività ma ci dovrebbero essere le condizioni per affrontare il rebus in sede negoziale e risolverlo con pragmatismo. Nell’attesa di misurare i problemi concreti sarà utile però ricucire il rapporto tra imprenditori e opinione pubblica, inevitabilmente segnato dalle polemiche su Bergamo, e per farlo bisogna partire da una semplice considerazione: continuare ad avere un’industria forte e competitiva non è un bene solo per il portafoglio degli azionisti ma per il sistema Italia e la nostra società. Solo aziende sane e moderne possono garantire buoni livelli occupazionali, sbocchi di qualità per i nostri talenti ed evitare che l’Italia del dopo-virus sia solo debito e sussidio.
Occorre sospendere il fuoco amico anche perché il compito che grava sui nostri imprenditori è già di per sé pesante. Più volte abbiamo sentito esponenti del mondo industriale lamentare il rigore delle chiusure italiane contrapponendolo al sostanziale non stop praticato dai principali concorrenti europei. Il rischio è di rimanere tagliati fuori dalle grandi catene internazionali di produzione. La verità la sapremo nel giro di un paio di settimane: confidiamo che non sia successo niente di irreparabile anche perché dimostrerebbe che le produzioni italiane sono insostituibili, per qualità del manufacturing e originalità delle soluzioni industriali. Anche in ambito domestico si dovrà capire se le filiere artigianali del made in Italy hanno retto e in caso riparare le smagliature. Per la continuità di settori come l’arredo/design è decisivo.
Nel momento in cui disporremo di questa mappa potremo ragionare anche sull’ipotesi di reshoring . Riportare indietro quelle lavorazioni — mascherine e principi attivi, ad esempio — che erano state delegate all’Asia e che in un’ottica di autosufficienza delle grandi aree regionali come l’Europa avrebbe senso richiamare. Il professor Romano Prodi sostiene da tempo che si tratta di un’operazione fattibile e che il differenziale di costo del lavoro tra Cina e Italia ormai non sarebbe così proibitivo. Non tutti concordano con questa valutazione ma sicuramente un’operazione di reshoring ben combinata con incentivi territoriali potrebbe rivelarsi utile per affrontare i gravi problemi di occupazione che si annunciano. Anche in questo caso fare politica industriale non vuol dire fare una politica per gli industriali ma riscommettere sul Paese.
La seconda sfida che si troveranno di fronte gli imprenditori riguarderà il rapporto con la mano pubblica. L’orientamento prevalente nel governo sembra quello di approfittare della crisi pandemica per un revival dello Stato imprenditore. Il ministro Stefano Patuanelli in più di una sortita ha anticipato di avere piani per le telecomunicazioni, l’energia e l’acciaio di Stato ma francamente, al di là delle obiezioni di carattere politico-culturale che pure si potrebbero muovere, in questo momento la burocrazia italiana non sembra disporre delle esperienze e delle competenze necessarie per vestirsi «alla francese». Viene difficile da credere che quello stesso ministero che aveva staccato la luce a Industria 4.0 oggi si sia riempito di nuovi Beneduce. Fanno bene, dunque, gli industriali a suonare l’allarme, alle viste c’è solo il fantasma di un capitalismo mediterraneo guidato dal debito. L’Alitalia elevata a sistema. Ci sarà in tutta Europa da ridefinire un patto tra pubblico e privato ma servono nuove idee, non improvvisazioni.
Il terzo campo d’impegno riguarda la tecnologia. La Rete è stata consacrata dal lockdown come infrastruttura-regina, migliaia e migliaia di italiani in queste settimane hanno fatto un corso accelerato di apprendistato digitale — persino Maurizio Landini, che lo ha confessato in tv — e il lavoro da remoto è diventato pratica di massa. Sarebbe paradossale proprio quando nella società italiana, in passato refrattaria, sono avanzate le condizioni per una modernizzazione di sistema che l’industria non avesse gli strumenti per proseguire la sua corsa nel mondo del 4.0. Secondo l’ «Economist» nei prossimi 18 mesi assisteremo a un’accelerazione tecnologica pari a quella che senza Covid si sarebbe diluita in 5 anni. Non possiamo restarne ai margini anche perché la trasformazione digitale del nostro sistema produttivo è a macchia di leopardo, abbiamo rinnovato le macchine ma non il capitale umano e gli investimenti avevano cominciato a ristagnare ben prima dell’epidemia.
Resta, infine, il futuro delle Pmi. Nella Grande crisi abbiamo conosciuto una decimazione delle piccole imprese, specie quelle che erano concentrate nelle lavorazioni a basso valore aggiunto. Ora ci sono i presupposti di una seconda drastica scrematura, se non altro perché i Piccoli che si sono rivelati resilienti allora, oggi hanno 12 anni in più e non c’è stato l’auspicato rinnovamento generazionale. È così utopistico pensare e chiedere di governare questo processo senza subirlo? Per la ramificazione che può vantare la piccola impresa italiana è una questione che travalica l’economia e investe direttamente il consenso politico.