Oltre che sul merito del voto, il duello si preannuncia sulla data: prima o dopo le elezioni regionali del 26 gennaio? L’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per aver illegittimamente trattenuto 131 migranti a bordo della nave Gregoretti a fine luglio 2019, è materia utile alla campagna elettorale del leader leghista, e un parere favorevole a far processare l’ex ministro sarebbe ulteriore benzina alla sua propaganda. Ogni giorno ribadisce di rischiare una condanna e la galera per aver difeso i confini della patria, anche nei comizi di ieri: «Sono orgoglioso di quello che ho fatto e lo rifarò, se mi rimandate al governo».
Con queste premesse s’intuisce che il centrodestra voglia mantenere la scadenza del voto della Giunta per le autorizzazioni del Senato, già fissata dal presidente forzista Maurizio Gasparri al 20 gennaio. Ieri però la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama ha deciso di sospendere i lavori di Aula e commissioni la settimana prima delle Regionali, con l’eccezione dei decreti legge in scadenza. La decisione della Giunta potrebbe quindi slittare, ma per adesso Gasparri tiene il punto: «Siamo un organo giurisprudenziale, possiamo rientrare tra le deroghe previste, per me è tutto confermato». Ovviamente a sostegno della sua tesi il presidente non cita la campagna elettorale ma il regolamento della Giunta, che prevede il voto entra trenta giorni dalla richiesta arrivata il 17 dicembre; termine che però non è perentorio, a differenza di quello stabilito per la pronuncia dell’Aula, entro sessanta giorni. Dell’eventuale rinvio (al quale potrebbero avere interesse, per ragioni opposte a quelle di Salvini, i partiti della maggioranza orientati a dire sì al processo) i senatori discuteranno già oggi, quando Gasparri farà la sua relazione sul «caso Gregoretti» e formulerà la propria proposta: verosimilmente un no all’autorizzazione a procedere, come già avvenuto un anno fa per il caso Diciotti. Molto simile, sebbene non identico, a quello su cui si dibatte ora.
Il Senato non deve stabilire se l’ex ministro dell’Interno ha commesso un reato vietando lo sbarco di 131 migranti tra il 27 e il 31 luglio scorso (questo l’ha già verificato, per ora, il Tribunale dei ministri; poi eventualmente lo confermeranno o meno altri giudici), bensì valutare se «abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico». Cosa che Salvini ha confermato nella memoria difensiva inviata al Senato, in cui ha ricostruito «l’attività di tutta la compagine governativa nella gestione dell’evento». Tentando così di coinvolgere nell’iniziale divieto di sbarco, prima che fosse deciso il ricollocamento dei profughi nel resto d’Europa, anche il premier Conte e l’allora vicepremier Di Maio. Come nella vicenda Diciotti, per la quale la ex maggioranza Lega-Cinque Stelle negò l’autorizzazione a procedere.
Stavolta i grillini hanno già annunciato il voto favorevole al processo, e la discussione nelle prossime sedute di Giunta servirà a chiarire le posizioni di tutti i gruppi. Anche alla luce degli atti dell’inchiesta, da cui si evincono le differenze con il caso Diciotti. Che esistono pure secondo la Procura di Catania, che aveva chiesto l’archivizione sia un anno fa che adesso. Tuttavia, mentre per la Diciotti i pm ritennero che il ritardato sbarco fosse un atto politico sottratto alla giurisdizione penale, stavolta negano persino la sussistenza del reato. Sia sotto il profilo soggettivo, e dunque delle intenzioni di Salvini, che sul piano oggettivo: quattro giorni costretti a bordo di una nave militare, con la necessaria assistenza sanitaria e alimentare, non sarebbero un periodo di tempo «apprezzabile» per tramutarsi in sequestro di persona. Il Tribunale dei ministri, però, s’è convinto del contrario, e adesso tocca alla politica prendere una decisione politica.