L’anno che finisce ha segnato profondi sconvolgimenti del panorama politico del nostro Paese. I risultati delle elezioni del 4 marzo segnano una frattura storica. Non solo per l’affermazione netta dei 5 Stelle e il successo leghista, quanto soprattutto per la sconfitta pesante delle due forze che hanno segnato la storia politica post Tangentopoli, Forza Italia da un lato, il Pd (nelle sue varie forme, da Ds e Margherita all’Ulivo) dall’altro. In sostanza le recenti elezioni segnano in qualche modo l’uscita di scena delle culture riformiste di cui queste formazioni erano eredi.
La nascita del governo Conte, frutto di una lunga e complessa gestazione, segna, per la prima volta tra i grandi Paesi europei, l’affermarsi di un esecutivo fuori dalle tradizioni. Portando a compimento processi di lungo periodo, che potremmo così riassumere: Il distacco élite/popolo, che appare nei primi anni 80, con la progressiva modernizzazione e secolarizzazione del Paese; l’individualizzazione, per cui il singolo diviene misura delle cose e compie quella torsione che fa sì che le opinioni del cittadino comune valgano quelle dello scienziato di fama; il presentismo, ovvero il progressivo appannarsi della memoria storica, spesso delegata al web o a strumenti esterni e non più, o sempre meno, raccontata e rinfrescata dalla politica e dalle forze intermedie; il direttismo, che consente al navigatore di confrontarsi direttamente con i leader e con i politici, in quel processo che elimina le intermediazioni e rende il politico specchio del cittadino; la semplificazione del linguaggio, portato dei precedenti, che richiede brevità, velocità, appunto semplicità.
Entriamo quindi in un nuovo mondo. Cerchiamo di vedere cosa è successo. Partiamo proprio dal governo e dal premier. I dati di consenso sono decisamente elevati. Il governo Conte parte bene con un indice di gradimento (60) vicino a quelli degli altri esecutivi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi), in luglio sale a 68 e a sei mesi dall’insediamento ritorna a 60 superando, alla stessa data, sia Berlusconi sia Renzi, anche grazie a un consenso più ampio di cui beneficiano le forze della maggioranza (60% dei voti validi). Tra settembre e oggi la perdita è di cinque punti. Non pochissimo, ma comunque meno degli altri. Il premier segue un percorso simile a quello del governo, rimanendo però sempre qualche punto sopra il dato del governo stesso. È come se gli italiani gli riconoscessero un ruolo di tenuta, di coagulo, sin dall’inizio. È il garante del contratto di governo ed è un ruolo che si è enfatizzato nella recente trattativa con l’Ue sulla manovra. A ciò si aggiunge lo standing istituzionale, a cui gli italiani si mostrano sempre attenti (soprattutto nei consessi internazionali), pur non disdegnando lo stile non convenzionale e talora aggressivo di altri della maggioranza.
I vicepremier hanno valutazioni che si vanno divaricando a favore di Salvini. Partiti appaiati all’insediamento del governo, i due vedono progressivamente allontanarsi i loro risultati. Di Maio scende dal 58 di luglio all’attuale 43, perdendo ben 15 punti. Salvini al contrario è riuscito a mantenere continuativamente il proprio consenso attorno al 60 fino a novembre, diminuendo di 4 punti a dicembre (56). Le difficoltà del M5S derivano da molti aspetti: l’impossibilità di mantenere alcuni impegni presi esplicitamente in campagna elettorale, in particolare sulle grandi opere; la complessa gestione della tragica vicenda del ponte Morandi; le diffuse resistenze rispetto al provvedimento principale del Movimento, il reddito di cittadinanza. Infine la complessità degli ambiti che fanno capo al M5S, difficili da gestire e i cui risultati potranno essere verificati in tempi non brevi. Salvini al contrario si è intestato aree più «semplici», comunque più immediate, prima fra tutte l’immigrazione. Che individua un «nemico», consente comunicazioni più dirette, salda malumori diffusi.
Dopo sei mesi Conte mantiene i consensi al 60%, più dei precedenti esecutivi. Fiducia in forte calo per Di Maio (43%), Salvini al 56%
L’andamento delle intenzioni di voto indica tendenze simili per i due partiti di governo. La Lega quasi raddoppia i propri consensi rispetto al risultato del 4 marzo, attestandosi al 32,9 per cento. Ma evidenzia i primi segnali di rallentamento. Solo un mese fa era accreditata al 36,2%, oltre tre punti in più degli attuali. Non è un rallentamento da poco. Se il «Capitano» rimane saldamente in sella, il partito risente invece di alcune difficoltà. La più evidente è il rapporto che il governo intrattiene con i ceti produttivi del Nord e del Centro-Nord. Reddito di cittadinanza, blocco delle grandi opere (in questi giorni si aspetta il verdetto annunciato contro la Tav), difficoltà a procedere speditamente verso la crescita dell’autonomia delle regioni settentrionali, non depongono a favore della Lega, che perde consensi nel lavoro autonomo, uno dei suoi capisaldi. Non a caso in queste ultime settimane il gruppo dirigente leghista e lo stesso Salvini hanno lanciato segnali in questa direzione, in qualche caso con polemiche non velate nella stessa compagine governativa. A queste domande la Lega è chiamata a rispondere in tempi rapidi, soprattutto di fronte allo scenario economico che non promette bene.
Il M5S è in difficoltà più evidenti. Se per la Lega è l’interruzione di un’ascesa eclatante, per i pentastellati il logorio invece continua. Oggi sono accreditati del 27%, cinque punti sotto le Politiche (-0,7% rispetto a novembre). La flessione è da ricondurre innanzitutto alla grande trasversalità del suo elettorato che rappresenta un enorme vantaggio stando all’opposizione, ma una grande complicazione quando si sta al governo: ogni provvedimento infatti rischia di scontentare una parte dell’elettorato che esprime attese molto diversificate e non sempre compatibili. Non a caso i delusi che hanno abbandonato il Movimento si sono rifugiati nell’incertezza o nell’astensione (circa il 20% dell’elettorato del 4 marzo) o hanno scelto la Lega (12%).
Il Pd sembra aver frenato la discesa e si attesta su un risultato analogo a quello delle Politiche (è al 18,1%). La campagna delle primarie ha riportato il partito sui media. Per quanto non entusiasmante e molto interna, fatta com’è di una battaglia prevalentemente di posizionamento, ciò ha prodotto qualche risultato. Bisognerà vedere se ci saranno le condizioni per una ripresa dopo le primarie. Forza Italia, oggi all’8%, si è quasi dimezzata rispetto al voto politico. Come indicano i flussi, il suo elettorato è stato cannibalizzato dalla Lega. I temi che questa formazione ha di fronte sono complessi. Si tratta di ridefinire la leadership e di individuare un’area che non sia «coperta» dalla Lega.
La luna di miele non si è ancora conclusa e il governo rimane saldamente in sella, nonostante le diversità di visione, gli ostacoli incontrati, la difficoltà sulle principali misure. Questo anche perché non esistono alternative. Che, per essere costruite, richiedono un cambiamento profondo, culturale, di classe dirigente, di capacità di rappresentanza sociale oggi più che mai problematica, a fronte di un crescente processo di frammentazione che genera categorie diverse rispetto al passato. E tra le tante incognite affiora una certezza: indietro non si torna.