Analizzare l’effetto-Salone è un esercizio difficile anche per i milanesi. Il rischio di confondere causa ed effetto, design e movida, lo si corre ogni giorno guardando, ancora con stupore, il flusso ininterrotto dei turisti stranieri che ammirano le installazioni disseminate nella città e affollano per una settimana intera strade, palazzi, cortili. La verità è che non ci si è abituati ancora al «nuovo» successo internazionale di Milano che, per altro, una volta era concentrato in una sola settimana di metà aprile ed oggi è tracimato grazie a un calendario di eventi che sembra non conoscere più soluzioni di continuità. Ma proprio per evitare una sorta di provincialismo di ritorno è bene, in sede di bilancio di questa nuova straordinaria edizione, tornare alla «causa prima» del successo e quindi al Salone che si tiene in Fiera. Non molti lo ricordano ma l’exploit della manifestazione milanese dell’arredamento e del design comincia agli inizi degli anni 2000 quando gli industriali italiani decisero, con una buona dose di coraggio, che non avrebbero portato più i nuovi prodotti a Colonia, sede della fiera leader di allora, ma li avrebbero riservati per la vetrina di Milano. Con la segreta speranza di riuscire un giorno a scalzare dal primo posto la manifestazione tedesca. Forse pochi allora ci avrebbero scommesso ma è andata esattamente così.
È accaduto che attorno a un consistente gruppo di aziende leader, capaci di fare squadra, è nata e si è sviluppata un’esperienza tra le più lusinghiere del capitalismo italiano. Numeri ufficiali ancora non ce ne sono ma ci si dovrebbe avvicinare a un monte-visitatori in Fiera di 400 mila unità (due terzi stranieri) con un incremento all’incirca del 20% sull’edizione di due anni fa omogenea per tipo di proposta (arredo, luce e ufficio) a quella che si chiude oggi. In una graduatoria ancora parziale dei visitatori quest’anno spiccano i cinesi che hanno sopravanzato russi e tedeschi in una competizione che suona come la dimostrazione della leadership del Salone di Milano. Un evento che i migliori architetti e designer del mondo non possono bucare.
Ma reso a Cesare quel che gli spetta la domanda più intrigante e affatto scontata diventa subito un’altra: qual è la ricetta di questo successo e cosa ci può insegnare? La risposta rimanda al binomio vincente creatività-innovazione. Attenzione non è una giaculatoria, perché la grande capacità della cultura industriale italiana di produrre «il bello e il benfatto» non è stata mai considerata, almeno nell’ambito di cui parliamo, come una rendita di posizione. Se infatti le migliori 20 o 30 aziende ogni anno non investissero una quota significativa del loro fatturato (circa il 10%) per presentare al Salone tanti nuovi prodotti basati su soluzioni e materiali sperimentali, il made in Italy non potrebbe mai pensare di perpetuare la sua egemonia. Per rendere possibile che il vantaggio competitivo si riproduca, le imprese migliori sono state costrette ad adottare un modello di business che assomiglia a un girone infernale: sfornano ogni anno prodotti di assoluta qualità e di fascia alta per poter così incassare sul mercato un margine operativo elevato e, soprattutto, tale da consentire robusti re-investimenti in ricerca e sviluppo. È la forza – speriamo che nel lungo periodo non diventi la debolezza – di un modello che non si giova purtroppo né di una finanza amica né di una politica industriale ad hoc. È un «modello nonostante» e proprio per questo è – duole dirlo – una metafora dell’Italia migliore. Di un Paese che sa far lavorare gomito a gomito gli industriali dei brand più conosciuti, i designer più pagati e gli artigiani brianzoli e veneti. Milano ci mette il resto: una macchina comunicativa di valore internazionale, una comunità cittadina che al di là delle divisioni politiche e culturali vanta un solido retroterra di valori condivisi, la crescente capacità di attrarre i migliori talenti nazionali e non.
Nell’Italia del 2019 che arranca tra una campagna elettorale permanente e il terrore di non riuscire a chiudere i conti della prossima legge di bilancio il Salone del Mobile non può che apparire a chi lo frequenta come un’isola felice. La nostra identità e il nostro lavoro che si fanno leadership globale invece della frusta riproposizione, davanti alla comunità internazionale, di una costante eccezione negativa. Primi gli italiani invece di prima gli italiani.