Quando era governatore della Banca di Francia, Jean- laude Trichet era detto “l’ayatollah del franco”. Sordo ai richiami della politica, Trichet mantenne sempre la barra dritta sul rigore monetario e sull’obiettivo di una moneta forte. E quando conquistò la poltrona di presidente della Bce continuò a onorare il totem del controllo dell’inflazione. Tanto che nel 2007 commise il famoso errore, anche su suggestione di un capo economista tedesco altrettanto ortodosso, Jürgen Stark, di alzare i tassi di interesse quando l’uragano della crisi dei subprime americani stava già montando all’orizzonte. Un errore che il presidente francese, Nicolas Sarkozy, non mancò di fargli notare pubblicamente. E il capo dell’Eliseo continuò a lamentarsi negli anni dell’euro forte, preoccupato che facesse da freno alle esportazioni francesi. Il suo connazionale non lo ascoltò mai. Non solo perché Trichet era a capo di un’istituzione che non rappresenta la Francia bensì un nutrito gruppo di Paesi riuniti sotto l’ombrello di una moneta unica. Ma perché Trichet sapeva che non c’è nulla di più sacro dell’autonomia della politica monetaria. Senza di essa, i mercati non sarebbero addomesticabili, non penderebbero dalle labbra dei governatori e non reagirebbero alla Bce come fecero ad esempio quando il successore di Trichet, Mario Draghi, pronunciò il suo famoso “whatever it takes”, a luglio di sei anni fa.
Nessuno meglio di un tedesco conosce questa lezione. Bundesbank è sempre stata un’istituzione sacra e credibile, sui mercati internazionali, per la sua autonomia dagli umori dei governi. E ha consentito al marco di diventare nel dopoguerra uno dei rari simboli di potere di un Paese che aveva scelto dopo le mostruose colpe del nazismo di condannarsi a un nanismo militare e, in parte, politico. Il marco fu sempre una delle valute più solide e forti del mondo. È famosa la battuta di un leggendario presidente della Commissione europea, Jacques Delors: «Non tutti i tedeschi credono in Dio. Ma tutti credono nella Bundesbank». Niente capo tedesco Se Angela Merkel ha rinunciato per la seconda volta a battersi per imporre un tedesco a capo della Bce (la prima volta nel 2011, quando accettò Draghi alla presidenza al posto di un tedesco) non c’è da meravigliarsi, dunque. Perché battersi per conquistare un’istituzione che anche in questi mesi sta dimostrando che il passaporto conta meno della carta straccia? Draghi ha frustrato ogni aspettativa di deliranti ministri minori e scalmanati parlamentari italiani di cambiare la propria traiettoria di politica monetaria per fare da scudo a 2.300 miliardi di debito pubblico e a deliranti e confusi piani sui conti pubblici. Anzi, giovedì scorso l’italiano ha lasciato intendere molto chiaramente che non cambierà di una virgola il suo piano di uscita dal Qe, tanto meno per aiutare il suo Paese di provenienza. Nessuna sorpresa, allora, se nel suo pragmatismo, nella sua consapevolezza molto tedesca che un presidente della Bce è indipendente e non rappresenta mai gli interessi di un singolo Paese, Merkel è sempre stata tiepida all’idea di imporsi nella scelta di quella poltrona, nel mercanteggiamento internazionale che è già cominciato sulla successione di Draghi e sulle altre poltrone europee in palio dopo le elezioni europee del 2019.
Merkel sta concentrando le sue forze sulla conquista di un’altra postazione chiave, nella Ue: quella della presidenza della Commissione. Anche perché è probabile che nei prossimi anni la Bce giocherà un molo meno importante rispetto allo scorso decennio. Mentre la delirante e dannosa politica commerciale europea di Donald Trump ha spostato molto più l’attenzione su Bruxelles, che ha la competenza esclusiva su quell’area. Uno dei più esilaranti retroscena del primo faccia a faccia tra Trump e Merkel racconta che il presidente avrebbe chiesto una dozzina di volte alla cancelliera di fare accordi commerciali direttamente con la Germania. E che una cancelliera sempre più sgomenta gli avrebbe risposto ogni volta, con teutonica tenacia, che il commercio è di competenza europea. I meccanismi della scelta È totalmente prematuro immaginare prima delle elezioni europee i nomi dei successori di Jean-Claude Juncker, ma una cosa è certa, confermata da autorevoli fonti della cancelleria. Per Merkel non c’è alcun automatismo tra la scelta del candidato di punta dei popolari europei – e dunque tra il suo assenso alla candidatura di Manfred Weber – e la poltrona di capo dell’esecutivo. Per quella, la cancelliera avrebbe già in serbo altri nomi, i suoi due fedelissimi Peter Altmaier, attuale ministro dell’Economia, e la collega alla Difesa Ursula von der Leyen. Ma tutto dipenderà dalla composizione del prossimo Parlamento Ue. Gli stessi candidati sembrano impossibili da proporre, se dalle urne dovesse scaturire una coalizione tra popolari e la destra populista, tanto per dirne una. Quanto alla notizia che riemerge periodicamente di un abbandono, da parte di Merkel, dalla cancelleria, fanno sapere che si tratta di una “colossale sciocchezza”: perché dovrebbe rinunciare a fare la cancelliera tedesca per fare la presidente della Commissione Ue, un posto dove conterebbe di meno? Inoltre, chi la conosce da sempre giura che dopo aver preso l’impegno a ricandidarsi, Angela Merkel lo onorerà fino in fondo. Tanto più quando non esiste ancora un suo successore credibile e in una situazione politica che si sta infiammando sempre di più a causa dell’ascesa dell’Afd.
Anche la partita perla successione di Draghi è totalmente aperta. E non è detto che ci sarà davvero lo scambio di cui si vocifera da mesi, ossia che in cambio dell’accettazione della presidenza della Commissione alla Germania, la Francia si prenderà la presidenza della Bce. Molto dipenderà infatti dalle scelte di un altro protagonista europeo che non ha ancora sciolto le riserve sui suoi desideri. Per la successione all’attuale presidente bisogna ovviamente attendere le elezioni di maggio e i nuovi equilibri politici che si determineranno AntonioTajan In carica dal 2017 rata perla girandola di poltrone Ue, ossia Emmanuel Macron. Nei mesi scorsi sono circolati tre nomi francesi per la presidenza della Bce, anzitutto quello dell’attuale direttore generale del Fmi, Christine Lagarde. Ma nei giorni scorsi l’ex ministro delle Finanze francese ha smentito questa indiscrezione con un vigore tale da far pensare di essere fuori dalla partita (al Fondo si mormora che a Lagarde non dispiacesse affatto l’idea). Quasi d’ufficio appare la candidatura dell’attuale governatore della Banca di Francia, François Villeroy de Galhau. Un terzo candidato credibile è l’attuale consigliere della Bce, Benoît Ceeuré, anche se qualcuno lo ritiene troppo “tecnico”. Non è detto, tuttavia, che alla fine non spunti invece un candidato di compromesso: da mesi si parla di Erkki Liikanen, ex governatore della Banca centrale finlandese e abile e versatile ex Commissario Ue. O persino un astro nascente dei banchieri centrali come l’irlandese Philip Lane. Per ora il brillante governatore della Banca centrale irlandese è destinato a sostituire il capoeconomista in scadenza, Peter Praet. Ma se non dovesse accadere, a Francoforte qualcuno è pronto a scommettere sul suo nome, per la successione di Draghi.