Incantati delle liti ideologiche oppure futili – europeismo contro sovranismo, tassa sulle bibite sì o no – spesso noi italiani perdiamo di vista ciò che conta. Non importa se da qualche parte si sta giocando una partita che deciderà della tenuta del Paese, innescherà fenomeni sociali destinati a coinvolgere milioni di persone e magari sarà in grado di determinare la qualità della convivenza civile per anni. Se non è possibile riassumerla in un tweet, la classe politica di solito la ignora. E dire che una sfida di questa natura l’Italia ce l’ha davanti, perché il mese prossimo segna una svolta a suo modo storica nell’indifferenza generale: dopo nove anni, per la prima volta nel novembre del 2019 l’amministrazione pubblica potrà sostituire il 100% del personale che va in pensione o si dimette.
Il ricambio dei dipendenti fra gli statali (il cosiddetto «turnover») era bloccato con vari gradi di intensità dall’esplodere della crisi del debito all’inizio del decennio, ma fra qualche settimana non lo sarà più. Lo Stato torna ad assumere e lo farà a pieno regime. Ne discende che il personale pubblico è potenzialmente alle porte di un radicale rinnovamento: escono molti rispettabili funzionari a stento a proprio agio nel mandare un’email; entrano – si spera – centinaia di migliaia di giovani ben selezionati, più motivati e sicuramente più capaci di mettere gli strumenti digitali al servizio dei cittadini e delle imprese.
Non sta accadendo troppo presto. Il settore pubblico in Italia versa da anni in uno stato di senescenza che non ha pari al mondo. Partito all’inizio del decennio, il blocco del turnover ha fatto salire la quota di statali dell’età di almeno 55 anni (o più) da meno di un terzo a quasi la metà del personale. Si tratta dell’incidenza di personale anziano più alta fra le oltre trenta democrazie avanzate dell’Ocse mentre, specularmente, i dipendenti pubblici sotto ai trent’anni d’età oggi sono meno del 3%.
Forse la politica della cinghia stretta era inevitabile e di certo ha aiutato a controllare la spesa, perché in dieci anni la quota degli stipendi pubblici è scesa dal 10,3% al 9,3% del prodotto lordo (secondo il Conto annuale della Ragioneria dello Stato). Nel caso del personale della scuola, la pressione è stata così forte che il potere d’acquisto degli stipendi è nettamente sceso e ormai la remunerazione dei dipendenti non somiglia più a quella di un’economia avanzata ma dei Paesi emergenti: l’Ocse mostra che nel 2014 la paga degli insegnanti delle scuole medie pubbliche in Italia era inferiore a quella dei loro colleghi messicani e simile a quella dei turchi, pagati poco più della metà di quanto guadagna normalmente un laureato. Solo amministrazioni di élite come la Presidenza del Consiglio dei ministri o la magistratura hanno visto in questi dieci anni crescere lo stipendio medio a doppia cifra.
Il numero di teste fra gli statali non sembra oggi eccessivo: negli ultimi dieci anni sono scesi dal 14,5% al 13% degli occupati in Italia, una quota ben sotto il 18% della media Ocse. Ma l’età media dei circa 150 mila addetti che lavorano nei ministeri a Roma è oggi di circa 56 anni, secondo stime sulla base del Conto annuale della pubblica amministrazione; quella nelle regioni e nella scuola è di oltre 54 anni, salita di cinque anni dall’inizio della crisi. Molti di questi addetti interpretano il proprio compito con dignità, ma si sono formati in un mondo diverso e ormai tecnologicamente preistorico. Per loro il rapporto con gli strumenti digitali o anche solo con gli studenti e gli scolari diventa sempre più faticoso: probabile che si spieghi anche così parte dell’inefficienza attuale dello Stato, che ostacola le imprese, frena la produttività e frustra i cittadini.
In questo squilibrio demografico si trova però anche un’opportunità, se questo governo sarà in grado di coglierla. Secondo le stime del dipartimento della Funzione pubblica, vista l’alta età media e le finestre anticipate con «quota 100», nei prossimi tre o quattro anni andrà in pensione mezzo milione di statali. Con la fine del blocco del turnover, si apre la possibilità di cambiare il 15% dell’amministrazione e anche più: una norma del decreto crescita di aprile permette alle amministrazioni locali finanziariamente sane di assumere anche più persone di quante non ne escano. Dunque entro il 2023 oltre mezzo milione di persone, in gran parte giovani, verranno selezionate per lavorare nello Stato. Basta guardare al concorso per navigator della primavera scorsa – 82 mila candidati a tremila posti – per intuire come uno Stato che assume in massa, fino all’uno per cento della popolazione adulta, genererà un fenomeno sociale. In milioni parteciperanno ai concorsi. Sarà un’occasione, anche, per frenare i deflussi di giovani verso l’estero. Qui entra in gioco Fabiana Dadone, la 35 enne laureata in legge dei 5 Stelle che da settembre è ministro della Pubblica amministrazione. Dadone progetta negare il premio in busta paga ai dirigenti pubblici incaricati della transizione digitale che non raggiungano i risultati e pensa a un portale unico per i concorsi, con tanto di app. Ma deve rispondere soprattutto a un’unica, difficilissima domanda: come si seleziona adeguatamente mezzo milione di dipendenti in pochi anni, scegliendo i migliori? Ne va della capacità dello Stato di funzionare nel rapporto con i cittadini e le imprese per decenni a venire. Alcuni grandi comuni chiederanno di organizzare da sé le selezioni su base locale, benché aperte a tutti i cittadini o ai residenti italiani. Ma l’enorme quantità di statali da rimpiazzare fa pensare che in prevalenza si terranno grandi concorsi centralizzati a ripetizione: ciascuno avrà (almeno) decine di migliaia di posti banditi e centinaia di migliaia di iscritti. Ogni selezione avrà dimensioni colossale. Ma a come strutturarle, individuando i vincitori sulla base del merito e della qualità dei candidati, sembra non averci pensato sul serio ancora nessuno. Più facile, per i politici, azzuffarsi in battaglie a colpi di tweet.