Ci sono economisti che con le loro polemiche pubbliche e i loro argomenti provocatori incoraggiano tutti a dibattere di più. Alcuni con i loro commenti su fatti portati alla luce da altri allenano il pubblico a riflettere o almeno offrono un po’ di conforto nel leggere qualcuno con cui siè d’accordo. La categoria più preziosa in questa professione finita da anni sotto accusa di fronte all’opinione pubblica è però un’altra, la più rara: quelli che con la loro ricerca originale sulla base di dati grezzi permettono alla frontiera della conoscenza di avanzare. Magari i loro nomi non sono quelli più ricercati nei talk show o più applauditi e insultati sui social network, ma sono quelli che producono la materia prima intellettuale sulla quale tutti negli anni seguenti sono destinati a confrontarsi. Spesso senza neppure sapere che le idee sulle quali l’opinione pubblica poi si divide vengono da quelle ricerche.
Luigi Guiso dell’Istituto Einaudi di Roma è sicuramente uno di questi economisti che fa avanzare la frontiera della conoscenza, uno dei pochissimi in Italia. Lo ha dimostrato ancora una volta con la pubblicazione — assieme ai colleghi Helios Herrera, Massimo Morelli e Tommaso Sonno — di uno studio sulle origini economiche del populismo che qualunque governante europeo, dentro e fuori dall’euro, a Est o a Ovest dell’ex cortina di ferro, dovrebbe leggersi. Dovrebbero studiarlo con molta attenzione i parlamentari appena eletti in Italia, perché offre una chiave molto precisa e fondata sui dati di quello che è appena accaduto. Guiso e i suoi colleghi, aggiornando per l’Europa alcuni studi capitanati in Europa da David Autor di Harvard, tracciano un filo dalle origini del populismo contemporaneo ai suoi risultati elettorali. Prima però la definizione: populista è un partito che rappresenta «il popolo» come virtuoso e fondamentalmente omogeneo; che si presenta come difensore della sovranità popolare, in opposizione al potere delle élite; e che si autodefinisce in opposizione all’establishment politico, che accusa di agire contro l’interesse del popolo.
Se questa è una forza populista, Guiso e colleghi si mettono in cerca dei fattori che ne spieghino lo sviluppo misurando l’impatto del commercio internazionale: calcolano l’aumento delle importazioni dalla Cina in ogni settore dell’industria manifatturiera in ciascuno dei Paesi dell’Unione europea e poi ne stimano l’impatto occupazione in ogni regione sulla base
delle specializzazioni produttive. In altri termini, Guiso e colleghi studiano per l’Europa quello che chiamano il «China effect»: la sensibilità politica al richiamo del populismo nelle aree colpite più negativamente dalla globalizzazione, sotto forma di ingresso della concorrenza dei prodotti dalla Repubblica popolare. E il risultato è molto chiaro. Il «China effect» e il livello di insicurezza economica che esso crea — diverso in ogni distretto in base alle specializzazioni produttive — sicuramente spiega in buona parte l’emergere del populismo. Ciò è vero negli Stati Uniti (lo aveva dimostrato David Autor), ma si conferma incontrovertibile anche in Europa occidentale. In Europa orientale invece l’irruzione delle importazioni dalla Cina non sembra aver avuto lo stesso effetto di scintilla del populismo.
Molto probabilmente l’impatto della globalizzazione è diverso fra Est e Ovest della cortina di ferro perché diversa è stata la reazione delle imprese: in Germania, Francia o Italia hanno risposto delocalizzando verso l’Europa dell’Est per ridurre propri costi, dunque l’insicurezza economica degli elettori è aumentata solo a Ovest ed è proprio nei tradizionali industriali ad alto costo che il «China effect» ha dispiegato con più forza le sue conseguenze politiche a favore del populismo. Nel loro studio (intitolato «Global Crises and Populism: the Role of Eurozone Institutions») i quattro economisti però non si fermano qua. Vanno oltre, perché notano una particolarità: nei sondaggi ufficiali l’aumento della sfiducia verso le istituzioni europee, chiara misura della sensibilità al populismo, non è uguale ovunque. Al contrario, si nota nei Paesi dell’area euro molto di più che nei Paesi dell’Unione europea, sia a Occidente (Svezia, Danimarca, Gran Bretagna) che a Oriente (Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania fra gli altri) che non hanno adottato la moneta unica. In questi ultimi fino al 2014 la fiducia in istituzioni come la Banca centrale europea, il parlamento di Strasburgo o la Commessione Ue è di circa il 40 punti superiore a quanto si registra per i Paesi (in teoria più europeisti) dell’Unione europea.
In altri termini, l’effetto-Cina agisce come propellente del populismo in maniera differenziale: molto di più nelle economie industriali mature d’Europa occidentale che hanno adottato l’euro, molto di meno su quelle che non lo hanno adottato. Guiso è colleghi definiscono questo fenomeno «Policy Straight-Jacket Hypothesis», l’ipotesi-corsetto sulle politiche economiche. Significa che Paesi ad alto debito e gravati da problemi antichi come l’Italia, raggiunti dalla choc cinese e poi dalla crisi finanziaria, si sono trovati con strumenti ridotti di politica economica più limitati per rispondere: non hanno potuto svalutare la moneta, non hanno potuto difendersi con strumenti tradizionali dalla crisi di fiducia sul debito e non hanno potuto usare il bilancio pubblico per ammortizzare gli effetti della crisi. Lo studio di Guiso e colleghi misura e documenta come tanto più intenso sia stato l’effetto-corsetto dell’area euro su Paesi e regioni già colpiti dalla globalina7ione, quanto più rapida e pronunciata è stata la crescita dei partiti populisti in quei Paesi. L’Italia in questo è un caso di scuola, ma non il solo. La conclusione è una certezza dimostrata nei dati: il populismo, almeno in Occidente, non nasce da fattori culturali ma dalla diffusione dell’insicurezza economica. L’ingresso dei Paesi ex socialisti nella Ue ha semmai avuto come effetto di produrre delocalizzazioni all’interno dell’Europa e non dall’Europa all’Asia. Mala lezione finale è ancora più drastica: il solo modo per contrastare davvero il populismo è ridurre l’insicurezza economica accelerando di molto l’integrazione politica e di bilancio nell’area euro. Senza questo, dovremo convivere a lungo anche con l’insicurezza della politica.