«Il capitalismo non è finito, ma ha bisogno di un nuovo contratto sociale». Il premio Nobel per l’Economia Joseph E. Stiglitz – una delle voci più forti al mondo nella critica della globalizzazione e del liberismo – chiede di rivedere le regole in modo da arrivare a un «capitalismo progressivo». Lo fa nel suo ultimo libro Popolo, potere e profitti.
Stiglitz non è certo un rivoluzionario: se nel panorama statunitense è un iconoclasta diventato a sua volta oggetto di culto per teorie che molti vedono sconfinare verso i territori proibiti del socialismo, in Europa la sua proposta suona molto più familiare. Non dissimile, in fondo, da quella che potrebbe avanzare un socialdemocratico svedese o perfino un buon vecchio democristiano della sinistra sociale. «Ma se non aggiustiamo al più presto il capitalismo – dice – rischiamo di finire travolti dalla forza delle diseguaglianze che quel sistema senza controlli ci sta imponendo» e dall’altrettanto violenta reazione dei populisti di tutto il mondo che tendono anch’essi a unirsi, proprio come Marx chiese di fare centosettanta anni fa – da allora con alterne fortune – ai proletari.
Aggiustare il capitalismo, professor Stiglitz. Ma con quali strumenti? Che cosa serve avere nella cassetta degli attrezzi per provare a cambiare quello che non va? E chi deve farlo?
«Devono farlo gli Stati e dalla cassetta degli attrezzi devono tirare fuori norme forti che limitino lo strapotere delle aziende; investimenti pubblici per le infrastrutture e che in generale aumentino l’efficienza e la produttività dell’economia; un sistema fiscale progressivo (dove i ricchi pagano in proporzione più tasse dei poveri, ndr) invece che regressivo come è oggi in Usa, tasse sull’inquinamento e sulle transazioni finanziarie; un Welfare State che non sia solo assistenza sociale, ma aiuti le persone a investire su se stesse».
Insomma un forte ruolo dello Stato, come regolatore, investitore, redistributore di risorse. Molti lo considerano del tutto antistorico.
«Serve senza dubbio un equilibrio migliore tra Stato e mercato. Se si lascia un mercato senza regole, se prevale quel “neoliberismo” che ha regnato negli ultimi quarant’anni, allora succede tutto quello che abbiamo visto negli Stati Uniti in questo decennio: banche che prendono rischi eccessivi, società che si approfittano dei loro clienti e dei risparmiatori, crisi finanziarie, case automobilistiche che cercano di ingannare sulle emissioni inquinanti delle proprie vetture, colossi alimentari che inducono i bambini a mangiare prodotti che li potranno far diventare diabetici. Ed è solo un elenco parziale».
Per molti anni si è pensato che nessun potere statale potesse limitare il potere delle grandi corporation, simili a navi corsare che non battevano alcuna bandiera nazionale. È così?
«No, penso che sia gli Stati Uniti sia l’Europa abbiano modo di incidere profondamente sul comportamento delle grandi società, specie colpendo pratiche anticoncorrenziali o evitando eccessive concentrazioni, e migliorando la regolamentazione finanziaria. I paesi più grandi, Cina compresa, hanno in realtà un potere enorme».
Fermare lo strapotere delle corporation non significa anche fermare, o almeno mettere a rischio, la crescita economica?
«È quello che hanno cercato e cercano di farci credere. Ma ciò che alla lunga frena davvero la crescita e lo sviluppo è l’aumentare delle diseguaglianze, il fatto che chi sta in basso abbia sempre meno opportunità e chi sta in alto possa agire senza vincoli».
C’è un paradosso, però. In Europa, a partire dall’Italia, abbiamo un capitalismo assai temperato dall’intervento dello Stato. Eppure l’Europa, in termini di pura crescita del Pil, sta ben dietro i deregolatissimi Stati Uniti. Perché?
«Prima di tutto penso che si debba essere molto cauti su come si misura la produzione di una società. Se il Pil aumenta, ma aumentano anche gli obesi o gli alcolizzati che vanno curati, qual è l’effetto complessivo sulla crescita di un paese? Inoltre la crescita della popolazione e della forza lavoro negli Usa negli ultimi decenni è stata ben più alta di quella europea, e ha contributo a spingere la crescita economica. Infine, c’è una moltitudine di fattori che possono influenzare il rapporto tra Stato, mercato e crescita economica. Guardi alla Svezia o alla Norvegia, che hanno avuto crescita soddisfacente e un intervento dello Stato. Più in generale, se si considera il periodo che copra all’incirca l’ultimo secolo, chi ha messo in campo Stato e mercato ha visto una crescita più equa e forte di chi non lo ha fatto».
Nessuno nega che all’interno dei singoli Paesi le diseguaglianze siano cresciute negli ultimi quarant’anni. Ma il neoliberismo non ha anche abbassato le diseguaglianze nel mondo? Non pensa che in fondo le sue idee siano un esempio di primato culturale occidentale?
«Sì, i paesi del Sud Est asiatico, in primis Cina e India, che sono tra quelli che più hanno beneficiato della crescita e hanno avuto in molti casi una riduzione delle diseguaglianze al loro interno. Ma per raggiungere questo obiettivo lo Stato è intervenuto in modo forte. Quindi io vedo ciò che è accaduto in quei paesi proprio come al prova che il mercato, per funzionare al meglio, deve essere temperato da un forte ruolo dello Stato».
È noto che lei è un critico dell’euro e delle politiche di austerità legate al mantenimento della moneta unica. Oggi ci serve meno o più Europa? O solo un’Europa differente?
«C’è una diffusa percezione che gli accordi attuali alla base dell’Europa, euro compreso, non funzionino bene. Del resto lo dimostrano i bassi livelli di crescita nel continente. Io penso che serva più Europa: l’unione bancaria, un fondo di solidarietà tra paesi europei, un’assicurazione di disoccupazione a livello continentale. Ma se non si riesce ad arrivarci, allora è meglio un po’ meno Europa. Io non critico la costruzione europea, ma solo la moneta unica che costringe paesi con politiche di bilancio molto diverse ad adeguarsi alla stessa moneta. E del resto non tutti i paesi dell’Ue sono nell’euro».
Le democrazie sociali del Nord Europa sono il vero esempio del suo “capitalismo progressivo”?
«Bisogna guardarsi attorno nel mondo e captare i differenti aspetti del capitalismo progressivo. Certo, la Svezia ha molto da insegnarci: ad esempio sul sistema di istruzione o sul Welfare State, mentre la Norvegia è probabilmente il miglior Paese a mondo come capacità di gestire le proprie risorse naturali. Altri paesi hanno saputo raggiungere un buon grado di cooperazione tra le imprese e i loro regolatori. Ma è un processo in continuo cambiamento in cui non bisogna smettere di cercare, di sperimentare».
*Repubblica, 7 novembre 2019