L’uomo che un anno fa celebrava sul “sacro pratone” la conquista del ruolo di plenipotenziario della politica italiana, ieri dal suo popolo cercava la rassicurazione di un legame sentimentale che l’ubriacatura solipsistica del Papeete non ha spezzato. L’ha ottenuta, questa rassicurazione, ma è una cambiale a scadenza ravvicinata: «I sette ministri ce li riprenderemo con gli interessi fra qualche mese», ha dovuto promettere alla folla. Fra qualche mese? Di mezzo ci sono elezioni regionali dall’esito incerto. Salvini lo sa bene: al movimentismo leghista non basteranno le sue comparsate televisive, né la raccolta di «milioni di firme», né la convocazione di altri «oceanici» raduni di protesta, per infliggere una spallata decisiva ai «traditori» e ai «poltronari». E allora i giudizi benevoli di ingenuità a lui rivolti sottovoce dai militanti convenuti a Pontida rischiano col tempo di tramutare il rimpianto in malessere.
«Fratelli leghisti, siamo più incazzati che mai!», ha tuonato lo speaker della kermesse presentando la sequenza degli oratori. Il primo dei quali, Pierguido Vanalli, il sindaco di Pontida rimasto in camicia verde, se l’è lasciato scappare: «Non siamo qui a piangere sul latte versato ».
Non è un dettaglio marginale, quello dei colori di Pontida. Su e giù per la via Briantea circolava su una vecchia decapottabile, venuto giù da Traona in Valtellina, un altro militante in camicia verde, Giorgio Gimelli, che issava una bandiera col Sole delle Alpi e un’altra col guerriero e lo spadone sguainato. «E il tricolore?», gli chiedo: «Eh no, quello non me la sento». Del resto era verde pure la maglietta dell’energumeno di Dalmine che ha spaccato con un pugno la telecamera del nostro collega Antonio Nasso. Fatto sta che, per quanto sul palco campeggiasse lo slogan “Prima gli italiani” e tra i convenuti vi fossero le delegazioni di quel “resto d’Italia” che ha portato la Lega fino a quota 34%, nella grande spianata non si contavano più di cinque o sei bandiere tricolori. Resta, questo, l’handicap di un partito di destra che aspirerebbe a presentarsi come patriottico e sovranista: a Pontida il nazionalismo si frantuma in mille campanili. Sul prato e sul palco la Lega, che non smette di esprimere la sua vocazione per le divise, ha dato luogo a un vero e proprio defilé di casacche e stemmi e felpe, espressione piuttosto di municipalismo che di un’identità condivisa. E se il governatore lombardo Attilio Fontana faceva distendere un enorme telone con la rosa camuna, il veneto Luca Zaia ne sfoderava uno ancora più grande col Leone di San Marco. Rispolverando subito dopo, nel suo comizio, la tradizionale ironia leghista sui giuristi napoletani di Di Maio e sul ministro siciliano Provenzano che osteggia l’autonomia del Nord.
Per la verità Salvini ci ha provato a nobilitare «la sacra difesa dei confini del nostro paese», minacciati dal ritorno ai porti aperti e dallo sbarco degli immigrati, richiamando niente meno che i caduti nelle trincee della prima guerra mondiale: «Il Piave mormorava allora come oggi». Ma si tratta di una retorica novecentesca che ha poca presa tra i militanti leghisti della disunità d’Italia.
Nell’offrire ancora una volta al popolo il proprio modello di forza fisica e di energia rivoluzionaria, stavolta il Capitano è stato costretto prima a garantirgli che «non mollerò mai», «lavorerò più di prima», «voglio tornare ministro dell’Interno », non è il momento di «tirare il fiato» né di «tirare i remi in barca». Per ben tre volte ha usato l’espressione della suprema resistenza, «Dovranno passare sui nostri corpi »: su droga, tasse sulla casa, abrogazione dei decreti sicurezza. È una sfida corporale al nuovo governo, ma è anche il sintomo di un isolamento politico. Nel suo breve comizio Salvini si è guardato bene dall’avventurarsi nel groviglio di contraddizioni di un centrodestra dal quale aveva cercato di emanciparsi e che ora gli presenta il conto. Nessuna citazione ha riservato alla Meloni e tanto meno a Berlusconi. Semmai la nuova fase movimentista della Lega contempla la trasformazione del partito che — lo ha chiesto esplicitamente ai dirigenti locali — dovrà aprirsi al reclutamento e arruolare i transfughi volonterosi che si riconoscono nella parola d’ordine scandita in coro: «Mai a sinistra e mai col Pd».
La folla è stata ripetutamente sollecitata a scaricare su Conte, Di Maio e Renzi (non su Zingaretti) raffiche di colorite invettive, senza indicare però una ancora inesplorata strategia delle alleanze, tutta da inventare. Il clima era elettrico, i militanti non si facevano certo pregare, come si è visto, nell’esternazione del repertorio di aggressioni verbali, razzismo e antisemitismo compresi.
Ciò non deve impedirci di riconoscere nelle decine di migliaia di militanti radunati a Pontida la realtà di un grande partito di destra, ma popolare. Si sono uditi perfino accenti operaisti dal capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari che, dopo aver definito il Pd «partito dei padroni», ha concluso ascrivendo alla Lega la difesa «degli interessi del popolo contro gli interessi del capitale». Poco importa che subito dopo Salvini inneggiasse a Margaret Thatcher, non proprio una paladina della giustizia sociale, come «la più grande donna del secolo scorso».
Diversi militanti della Lega hanno voluto fare dei selfie con me e mi hanno salutato cordialmente. Ci conosciamo da molto tempo. Altri viceversa mi hanno rivolto contumelie di vario genere, compreso il richiamo alle mie origini ebraiche. Ho chiesto a Roberto Calderoli di venire con me a spiegargli che frequento per lavoro i raduni di Pontida da prima che ci arrivassero loro. Calderoli mi ha risposto: «Meglio di no, fischierebbero pure me». Allora gli ho chiesto come sia possibile che proprio lui, l’inventore della legge elettorale del Porcellum, ora ne proponga una di segno opposto per via referendaria. E lui: «Lei ricorda che macchina aveva nel 2005? Non l’ha cambiata nel frattempo? Con la legge elettorale si fa lo stesso».
I leghisti se la danno da rivoluzionari coerenti ma sono molto, ma molto disinvolti.