I governi che si sono succeduti le hanno provate tutte, ma l’occupazione in Italia non decolla. È vero, lo scorso giugno, secondo i dati Istat, si è raggiunto il record di occupati con 23 milioni 415 mila persone al lavoro. Ma si è trattato solo di un recupero rispetto al picco precedente, quello di aprile 2008 (23 milioni 185 mila). Ci abbiamo insomma messo undici anni per sanare le ferite della grande crisi economica, che ci aveva fatto perdere un milione di posti di lavoro, col minimo toccato a settembre del 2013 (22 milioni 107 mila). Da allora è cominciata una lenta risalita, pagata a caro prezzo dallo Stato, con la decontribuzione sulle assunzioni decisa dal governo Renzi, che se ha dato una spinta decisiva al recupero dei posti di lavoro, è costata circa 17 miliardi di euro in contributi alle aziende. Alla fine di questa corsa decennale il numero di occupati ha più che pareggiato quelli che si erano persi, ma così non è stato per le ore lavorate. Abbiamo in sostanza lo stesso numero di lavoratori che avevamo nel 2008, ma lavorano mediamente meno. Ci sono infatti un milione in più di occupati part time in più rispetto a prima della crisi e il 64% lo è non per sua volontà. C’è stata poi una forte riduzione degli straordinari e un aumento della cassa integrazione. Risultato: nel primo trimestre 2019, le ore lavorate nel complesso dell’economia risultano essere ancora del 4,8% inferiori rispetto al quarto trimestre 2007, che aveva registrato il valore più alto ante-crisi (dati dell’Osservatorio sul mercato del lavoro del centro studi Itinerari previdenziali). Siamo lontani dall’Europa. In Italia lavorano 23,3 milioni di persone. Il tasso di occupazione nella fascia d’età tra 20 e 64 anni è del 63% contro l’80% della Germania e il 73% della media dell’Unione europea.
Un anno fa, il governo gialloverde (Movimento 5 Stelle-Lega) ha lanciato la sua politica del cambiamento anche in questo campo con il decreto legge «dignità». La stretta sui contratti a termine, resi più costosi e complicati per le aziende, avrebbe dovuto eliminare la precarietà, secondo l’allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, e rilanciare l’occupazione. Effettivamente, in una prima fase, grazie soprattutto all’impennata delle trasformazioni dei contratti a termine in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, questi ultimi sono leggermente aumentati, passando da circa 14,8 milioni del 2018 a 15 milioni del terzo trimestre di quest’anno. I contratti a termine, invece, pur rallentando la loro corsa, che li aveva visti passare da 2,2 milioni nel 2007 a 3 milioni nel 2018, sono continuati a salire, toccando proprio a settembre (ultimo dato Istat disponibile) il nuovo massimo con 3 milioni 108 mila lavoratori. La precarietà è tutt’altro che finita ed essa non è circoscritta alla sola temporaneità del rapporto di lavoro ma attraversa, appunto, anche l’occupazione stabile quando essa prende la forma del part time involontario. E il totale degli occupati è sceso a settembre a 23 milioni 354 mila: 61 mila in meno rispetto al massimo storico di giugno.
Un contributo importante al rilancio dell’occupazione, secondo le promesse del governo gialloverde, doveva venire anche da Quota 100 e dal Reddito di cittadinanza. Con la prima misura l’esecutivo Conte 1 contava di mandare in pensione anticipata 973 mila lavoratori nel triennio 2019-21, ma quest’anno, che dovevano uscire in 290 mila, siamo a circa la metà. Non solo. Il vorticoso turn over che Quota 100 avrebbe dovuto innescare non c’è stato. Nel privato spesso il prepensionamento ha funzionato da ammortizzatore sociale aggiuntivo in situazioni di crisi aziendale conclamata o in arrivo. Altro che tre assunzioni per ogni lavoratore uscito con Quota 100, come prometteva la Lega. Nel pubblico, in teoria, ci dovrebbe essere la sostituzione uno a uno, se non altro perché c’è un problema di organici (in particolare nella scuola e nella sanità) visto che, a prescindere da Quota 100, si calcola che nel triennio circa mezzo milione di dipendenti pubblici arriverà alla pensione. Ma il processo di reclutamento con i concorsi pubblici è lento e farraginoso.
Il Reddito di cittadinanza, secondo la relazione tecnica alla legge, avrebbe dovuto riguardare un milione 248 mila famiglie per circa 3,7 milioni di persone. Ma anche qui siamo molto sotto le stime del governo. Ad oggi, infatti, le famiglie che prendono il sussidio sono 943 mila per circa 2,2 milioni di persone. Ma a circa 100 mila famiglie il Reddito dovrebbe essere sospeso da questo mese per mancata integrazione della domanda secondo i termini di legge. In teoria, un terzo degli assistiti — diciamo 700 mila — dovrebbero essere avviati al lavoro grazie all’attività dei 3 mila navigator assunti allo scopo. Ma a sette mesi dal debutto del Reddito di cittadinanza non c’è la piattaforma telematica sulla quale si dovrebbero incrociare offerte e domande di lavoro. Insomma, sta funzionando solo la parte assistenziale della riforma.
Il governo Conte 2, scaricata la Lega e imbarcato il Pd, si trascina dietro entrambe le misure (Quota e Reddito), ma sa che non è da esse che potrà arrivare una spinta all’occupazione. Ha allora rispolverato la ricetta del taglio delle tasse e del rilancio degli investimenti pubblici. Ma senza troppa convinzione, se nella sua nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, lo stesso Conte 2 fissa per il 2020 un obiettivo di aumento degli occupati di appena lo 0,4%, inferiore allo 0,5% stimato per il 2019 e allo 0,8% registrato nel 2018. Insomma, nessuna svolta in vista. Del resto, i dati sul Pil non sono confortanti. Quest’anno cresciamo intorno allo 0,2%. E l’anno prossimo il governo scommette sullo 0,6%, mentre gli investimenti languono e gli italiani tengono i soldi fermi in banca: 1.500 miliardi di euro secondo l’associazione bancaria, quasi quanto il Pil. Aspettando Godot