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Professor Vito Mancuso, il suo ultimo libro si intitola «Il bisogno di pensare». Proprio il pensare oggi è al centro di una nuova grande ansia moderna: l’idea che macchine sempre più veloci e potenti possano in qualche maniera entrare in competizione con noi e sottrarre centralità all’essere umano. Gli uomini hanno oggi paura di perdere l’esclusività del pensiero.
«In realtà dobbiamo partire dal fatto che il pensiero non è esclusivo dell’essere umano già adesso, perché se definiamo il pensare come l’elaborazione di informazioni tutto ciò che vive a suo modo pensa. Anche le piante sanno come rapportarsi al mondo. L’albero sa dove mettere le radici. I virus sanno, alla loro maniera, dove andarsi a cercare il glucosio e chi è nemico e chi amico. Questo significa che già adesso il pensiero è esclusivo più in generale dei viventi. È vero però che se tutto pensa, è esclusivo dell’essere umano il pensiero libero, non funzionale solo alla sopravvivenza. Il pensiero diventa caratteristico degli umani quando diventa elaborazione gratuita e creativa. Non perché voglio mangiare ma per un desiderio più intimo, di bellezza: sono attratto dalla verità, dunque ecco la scienza. Dalla giustizia. Ed ecco i tribunali. C’è un saggio bellissimo di Hans Jonas in cui l’autore afferma che l’homo pictor è ciò che ci ha caratterizzati come esseri viventi. È quando l’uomo diventa “pictor” nelle caverne e fa delle cose senza scopo che mostra la propria peculiarità e si distacca dagli altri esseri viventi» …
Quei segni furono anche alla base della scrittura, l’elaborazione dei segni per trasmettere la conoscenza. Ma anche questa elaborazione oggi è stata assorbita dalla digitalizzazione. Non abbiamo più il monopolio della conoscenza per certi versi.
«Difatti ora il tema è se non temo che nel nostro rapporto con le macchine si riproduca la dialettica servi-padrone di cui parlava Hegel. In parte è già così: non c’è già un appiattimento nel pensare a causa di queste macchine? Non sono un luddista ma neanche un ammiratore acritico. Vedo come sempre in ogni fenomeno la parte positiva e quella negativa. E credo che già adesso la tecnologia possa essere un pericolo al pensare perché questo nasce dal silenzio, dal distacco, dal vuoto. Se ritorniamo dalla cosmogonia biblica troviamo che all’inizio il mondo è lo spazio vuoto: un abisso. Si parla di chaos che in greco significa spazio vuoto. Solo dopo il termine ha preso il senso di disordine. Perché ci possa essere cosmogenesi ci deve essere il vuoto, il wu come lo chiamano i cinesi. La mente riesce ad agire quando non si sofferma in maniera spasmodica sul problema, lo devo vedere e contemplare ma poi per potere dire qualcosa di nuovo si deve distaccare. Idea in greco significa visione. Il concetto lo prendo e lo produco elaborando le informazioni, ma le idee vengono quando vogliono loro. Il rischio di queste macchine è che non ci sia mai il vuoto: producono reazione e non azione. È questo il rischio di una società perfetta in cui tutto è affidato alle macchine: abbiamo il conta battiti al polso, le macchine ci dicono quando dobbiamo alzarci, mangiare. Tutto è regolato come in una società lineare ma senza discontinuità non c’è evoluzione».
Nel nostro rapporto con le nuove tecnologie mi sembra di ritrovare il rapporto che l’uomo ha avuto fin dall’antichità con le divinità: prima le abbiamo create per poi averne paura. Anzi, le abbiamo create quasi “per” averne paura, per avere un nuovo riferimento una volta perso quello della divinità. L’uomo crea Giove che poi lo punisce. Non le sembra che potremmo usare le stesse categorie per spiegarci questo rapporto uomo-macchina senza? Oppure dobbiamo pensare anche a categorie filosofiche nuove?
«È certo che gli dei sono stati inventati dagli uomini e noi ne siamo diventati schiavi. Non abbiamo creato il divino. Ma lo stesso Dio biblico è chiaramente una proiezione della volontà di potenza dei maschi, dove per volontà di potenza intendo il volere schiacciare i nemici, la ricerca della supremazia, il dio degli eserciti. L’archetipo per noi occidentali è sempre il dio barbuto della Cappella Sistina di Michelangelo che ci guarda non con malevolenza ma nemmeno con benevolenza. Nel nostro rapporto con la tecnologia c’è una grande macchina che ci osserva dall’alto e che ci controlla. Sono queste tutte idiosincrasie soprattutto dei maschi. Non solo ma soprattutto. E visto che siamo noi a creare le macchine allora il rischio che diventino il nuovo dio degli eserciti esiste».
Sembra quasi, seguendo il suo ragionamento, che il problema è che ci sia troppa cultura e animo maschile nei super-computer. Parliamo in effetti di processori sempre più veloci, sempre più potenti, sempre più capaci di dominare. Dovremmo allora mettere più “femminilità” in esse? Dopo Ada Lovelace, considerata la prima programmatrice, abbiamo una lunga fila di uomini nella storia dei computer.
«Se per femminile intendiamo la dinamica di relazione e non di controllo, di generazione e non di oppressione sì. Io non penso che le donne siano buone e gli uomini cattivi, intendiamoci. In ogni essere umano esistono ambedue le dimensioni. Un Gandhi e un Nelson Mandela sono esempi di politici femminili per la loro capacità di creare delle dinamiche di relazione. Margaret Thatcher è un esempio di politica al maschile. In effetti questo pericolo che lei adombra c’è: proiettiamo nelle nostre creazioni le cose belle e brutte. Se mai si dovesse fare una macchina di questo tipo, dovrebbero farla non solo gli ingegneri, ma gli artisti, i filosofi. Anche le donne all’interno di queste categorie».
Un altro elemento che collega la religione e la tecnologia sembra essere il fatto che abbiamo una grande fede nei confronti delle macchine tanto da credere che l’intelligenza artificiale e le biotecnologie potranno allungare la vita dell’essere umano fino a 120 anni. Allo stesso tempo crediamo che socialmente siano un disastro.
«Sono d’accordo. C’è un passo di Lessing quando si rivolge a dio in cui dice che se dio tenesse tutta la verità sulla destra e sulla sinistra l’impulso alla verità chiederebbe la sinistra. Ecco potremmo dire la stessa cosa per una tecnologia che avesse sulla destra il lavoro compiuto e sulla sinistra l’impulso verso il lavoro. Diremmo alla macchina: tieni la perfezione solo per te. Oggi il posto che aveva dio è sempre di più della tecnologia. C’è anche un altro aspetto che accomuna i due argomenti: c’è fede, giusto, ma c’è anche culto e liturgia. Anche il tempo che passiamo a curare queste macchine ricorda il culto. O quando gli chiediamo di svegliarci non è forse una liturgia moderna? Quando si lanciano i nuovi prodotti si formano delle lunghe file. Sono i nuovi pellegrinaggi. E poi c’è la fiducia nel miracolo, nella soluzione».
Anche nei social network sembra apparire una categoria che spesso accomuniamo al mondo delle religioni: l’estremismo e la radicalizzazione. I dibattiti sulla rete tendono sempre a creare delle polarizzazioni estreme. L’altro è visto come il nemico e non viene tollerato. La velocità della rete, nonostante le grandi promesse delle origini di internet, non sembra essere adatta al dialogo che ha bisogno talvolta di lentezza.
«La mia impressione è che sia così. Io sono su Facebook, dove peraltro ho aperto un profilo dieci anni fa solo per contrastare un altro profilo su di me che non avevo aperto io. C’è spesso aggressività nel linguaggio, nel tono. Si usano le parole come arma. Io stesso sono stato aggredito sui social network».
Oggi che c’è una fiducia nei grandi dati, i cosiddetti big data, sembra anche tornare utile una delle lezioni americane di Italo Calvino laddove narrava le virtù della leggerezza e della sottrazione. Forse tutta questa accumulazione di informazioni crea, come diceva lei stesso, troppo pieno. Mentre talvolta serve il vuoto. Le informazioni promettono tutte le risposte ma non permettono di fare le domande, che forse rimangono la nostra ancora di salvezza.
«Ecco: sa cosa sarebbe utile? Se la tecnologia invece di dare risposte imparasse proprio a porci delle domande. Oscar Wilde diceva: sono quasi tutti capaci di rispondere ma per le vere domande servono i geni. Servirebbero delle domande che non ci siamo ancora fatti».
*Corriere Innovazione, 30 marzo 2018