Una crepa nel segreto professionale di Banca d’Italia. Per l’Avvocato generale della Corte Ue non c’è ragione di opporre un vincolo di riservatezza da parte dell’Autorità di vigilanza davanti alla richiesta di accesso presentata dal correntista di una banca posta in liquidazione. Le conclusioni sono state depositate ieri, ma la sentenza, il più delle volte aderente alle conclusioni stesse, arriverà solo tra qualche tempo.
Il caso riguarda un correntista di Banca Network Investimenti, ma potrebbe riguardare anche Veneto Banca o Popolare di Vicenza per esempio, che aveva depositato circa 180mila euro, ma, a causa della liquidazione coatta amministrativa della banca, se ne era visti restituire soltanto 100mila. Sospettando l’esistenza di fatti che avrebbero potuto fondare la responsabilità sia della Bni sia della Banca d’Italia, aveva chiesto all’Autorità l’accesso ad alcuni documenti della Bni o riguardanti la Bni per valutare l’opportunità di instaurare una causa di risarcimento. L’accesso agli atti gli era stato in parte negato dalla Banca d’Italia. La ragione del rifiuto veniva indicata nel segreto professionale, visto che le informazioni richieste erano in possesso di Bankitalia per finalità di vigilanza.
Il Tar del Lazio, nel 2015, respinse la domanda del correntista, chiarendo che la possibilità di chiedere l’accesso alle informazioni confidenziali relative agli istituti di credito sottoposti a liquidazione coatta presuppone che il richiedente abbia introdotto una causa. Di qui l’impugnazione davanti al Consiglio di Stato che, a sua volta, ha chiamato in causa la Corte Ue.
L’Avvocato generale allora osserva che la richiesta è soggetta alle regole nazionali sull’accesso ai documenti e alla direttiva 2013/36, che all’articolo 53 (ed è la prima volta che la Corte Ue è chiamata a interpretare la norma) prevede, da un lato, una regola generale sul segreto professionale e, dall’altro, un’eccezione in caso di fallimento o liquidazione coatta della banca. Il Consiglio di Stato, sottolineano le conclusioni dell’Avvocato generale, parte dal presupposto che le informazioni alle quali il correntista intende accedere sono riservate e non riguardano soggetti coinvolti nei tentativi di salvataggio della Bni. La questione allora è tutta nell’interpretazione dell’articolo 53, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 2013/36 , e, in particolare, sulla portata dell’espressione «nell’ambito di procedimenti civili o commerciali».
Per l’Avvocato generale non deve essere seguita un’interpretazione rigida della disposizione. Perciò, «in una fattispecie come quella in esame, non vedo – avverte l’Avvocato – per quale ragione tale argomento debba equivalere, in concreto, all’immunità degli enti creditizi e potenzialmente delle stesse autorità di vigilanza, da ricorsi proposti da una parte lesa che sostiene di aver subito un danno per effetto di una presunta cattiva amministrazione dell’ente creditizio e/o del malfunzionamento del sistema di vigilanza prudenziale».
Di conseguenza non c’è ragione «di suggerire che un meccanismo limitato di divulgazione, disponibile solo in caso di fallimento o di liquidazione e sotto il controllo dell’autorità di vigilanza e dei giudici competenti, metterebbe necessariamente a repentaglio il corretto funzionamento del sistema di vigilanza prudenziale, nel senso che comprometterebbe la trasmissione di informazioni riservate dalle entità controllate all’autorità di vigilanza».
E quanto ai procedimenti civili o commerciali, questi, per l’Avvocato, non devono essere necessariamente in corso , ma è sufficiente che siano potenziali. Perché possano dirsi potenziali, è necessario, però, che il richiedente sia un soggetto direttamente danneggiato dal fallimento o dalla liquidazione coatta della banca (ad esempio, un investitore, un cliente o un dipendente).