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Salvatore Majorana, direttore del Parco Scientifico Tecnologico Kilometro Rosso di Bergamo e pronipote del fisico Ettore Majorana, si definisce un “ambasciatore” dei vantaggi della tecnologia.
Tecnologia e automazione come stanno cambiando la nostra vita?
L’automazione è la conseguenza di un processo evolutivo in corso ormai da diversi anni. Di per sé è una fase di sviluppo del sistema produttivo. Se andiamo a guardare la storia, andando indietro di qualche centinaio di anni, ci accorgiamo che l’intervento delle tecnologie nei processi produttivi è stato inequivocabilmente il punto di cambiamento della condizione umana. Si è trattato, sempre, di un intervento che ha generato ricchezza, allungamento e maggiore qualità della vita, crescita della popolazione su questo pianeta. Ci sono dati incontrovertibili del fatto che questo sia un percorso che ha radici che partono dalla prima rivoluzione industriale, si consolidano con la seconda, continuano con la terza rivoluzione industriale, avviandosi verso un’evoluzione ulteriore negli anni che viviamo, con l’introduzione della catena integrata dei sistemi produttivi, la classica e ormai nota industria 4.0.
Un’evoluzione quindi del tutto positiva…
Se andiamo a chiederci se ha un senso automatizzare forse dovremmo cominciare a guardare che cosa ha generato questa automazione. Si tratta di un processo che ha generato una ricchezza che è straordinariamente più elevata di quella che c’era un paio di secoli fa, poi più cultura, più salute. Vogliamo bloccare la tecnologia? Allora sarebbe inevitabile rinunciare anche alla qualità di vita a cui ormai da tempo ci siamo abituati. Un pezzo di mondo deve ancora arrivare perché, purtroppo, questa situazione non è uguale per tutti, ma noi non possiamo pensare di fare dei passi indietro.
A quale livello si attesta lo sviluppo tecnologico del nostro Paese?
Ci siamo per forza di cose, anche noi. Ci siamo perché rimanerne fuori sarebbe deleterio. Manderemmo veramente alle ortiche quello che abbiamo costruito fino a oggi. Ci siamo perché esprimiamo in maniera sempre più consolidata la seconda economia manifatturiera d’Europa e tra le più importanti di questo Pianeta. Guardando le classifiche internazionali, tra le provincie europee a più alto valore aggiunto della produzione industriale, nella classifica delle prime 20, 9 di queste sono italiane, cioè quasi la metà delle provincie migliori nella produzione di valore aggiunto industriale in Europa sono italiane, la prima è Brescia, la seconda è Bergamo. Questo significa che abbiamo un Paese strutturalmente organizzato in termini di fabbriche produttive di alta qualità. L’altra faccia della medaglia però è un Paese molto disomogeneo in questo senso. Abbiamo infatti alcune aziende che hanno un altissimo potenziale di innovazione, che hanno capacità di studiare nuovi processi, di dotarsi di grandi capacità tecnologiche, di cavalcare il cambiamento. Poi abbiamo invece una fetta di aziende, molto corposa, che è in bilico tra la novità e la tradizione, e poi ci sono quelle molto indietro. Più o meno i dati ci dicono che, su 100 aziende italiane, 20 sono innovatrici che guidano, 60 sono in quell’area di mezzo in cui dovrebbero fare uno sforzo in più per agganciare il gruppo di testa, ma se non lo fanno finiscono con lo scivolare, e le ultime 20 sono in coda.
I robot come sostituti dell’uomo nel lavoro. E’ uno scontro tra i due o il robot arriva laddove non arriva la mente umana?
Sono un convinto sostenitore di questa seconda ipotesi. Il robot è un aiutante delle persone che sono in linea oggi, per molti motivi. Innanzitutto, è disegnato per svolgere compiti che tipicamente sono complessi, ma normalmente di carattere ripetitivo e, in genere, logorante, quindi sono fatti e pensati per sollevare i lavoratori in linea dagli incarichi più gravosi. Il secondo motivo è che, ad oggi, robot che sostituiscono interamente il lavoratore non ve ne sono tantissimi. Più frequentemente vi sono robot che integrano il lavoro delle persone in linea e, pertanto, sollevano i lavoratori da parte del carico di lavoro ma non dalla parte intellettuale di controllo qualità e di verifica che invece il lavoratore continua a fare. Se poi guardiamo ai dati storici, l’avvento della tecnologia finora ha generato posti di lavoro facendone tramontare di vecchi, ma il rapporto tra i nuovi posti di lavoro e i vecchi è sempre stato positivo. E’ la riconversione dei lavoratori la vera sfida.
Conversione significa creazione di nuovi lavori, di nuove figure professionali, con lo spostamento su mansioni che anni fa non esistevano?
Sì. è esattamente quella la vera sfida che noi stiamo sottacendo o non stiamo affrontando con la necessaria energia. Infatti, purtroppo, sento troppo spesso additare l’automazione, le tecnologie, i robot come il male in arrivo, per la perdita di posti di lavoro, e sento troppo poco discutere di quanto poco stiamo formando i nostri lavoratori a gestire le nuove tecnologie. Che ci piaccia o no, queste tecnologie arriveranno. Non si può fermare questa ondata, che è globale. Sarebbe molto più utile surfare quest’onda, che subirla.
La formazione diventa quindi un elemento fondamentale?
E’ l’elemento chiave. Penso che la vera tecnologia irrinunciabile sia quella del cervello umano, e il cervello umano va allenato così come vanno allenate le competenze in tutti i modi. Il vero focus di industria 4.0, in realtà, è e dovrebbe essere per tutti non tanto cambiare i macchinari, ma adeguare il sistema produttivo, partendo dalle persone che quel sistema produttivo dovranno farlo camminare. Quindi è vero che cambia la macchina, ma se cambia la macchina devo anche formare le persone a gestire le nuove macchine, i nuovi processi e il nuovo modo di vedere la produzione. Le persone rimangono al centro di questa ondata di tecnologia.
Nel mondo tecnologico che cambia vi è un rimescolamento delle materie con la necessità che i vari campi del sapere dialoghino tra di loro?
Assolutamente sì. Quando penso a formare nuovi lavoratori, avrò bisogno di avvocati che capiscano il coding, avrò bisogno di archeologi che capiscano di fisica. Abbiamo bisogno di mettere insieme pensieri che vengono da culture molto diverse. Non è vero che il mestiere dell’avvocato potrà sparire perché ci sarà un computer che farà il lavoro al posto suo. E’ però vero che una parte del mestiere dell’avvocato sarà più automatizzata e che l’avvocato stesso dovrà comprendere nuovi scenari applicativi del suo vecchio mestiere.
*La Provincia, 21 maggio 2018