A cavallo tra la fine del 2019 e l’inizio del nuovo anno è apparsa simultaneamente su diversi quotidiani una serie di articoli, di vari commentatori ed economisti che hanno tracciato un bilancio sommario del decennio 2010-19 dell’economia italiana. Prevalenti fin dai titoli i toni apocalittici: «Un decennio orribile», «Gli errori nella gestione della crisi», e via dicendo.
Come da copione, poi, numerose anche le autocitazioni del tipo: «Non ripeteremo cosa sarebbe necessario secondo noi per uscire dalla crisi». Pochi invece gli interventi analiticamente più solidi e più centrati sulle politiche necessarie per aumentare il tasso di crescita a medio-lungo termine dell’Italia, senza gettare comodamente come sempre la croce addosso su chi ha governato nel passato. Citeremo qui tra questi rari interventi di spessore quello di Romano Prodi sul Messaggero del 29 dicembre dal titolo «I sei ostacoli alla crescita e la risposta per ripartire», con proposte di politiche articolate per la famiglia, l’istruzione, una maggiore stabilità politica, la burocrazia, la giustizia, l’evasione fiscale.
Quanto al punto di vista di chi scrive, il bilancio complessivo del decennio 2010-19 dell’Italia va necessariamente scomposto. Infatti, occorre evitare conclusioni approssimative su dieci lunghi anni che non sono stati affatto omogenei tra loro bensì nettamente divisi in due tronconi: un primo periodo di forte crisi (2010-14) e un secondo di significativa crescita (2015-18), addirittura la più forte crescita che l’Italia abbia mai sperimentato da quando è cominciata la circolazione monetaria dell’euro. Altrettanto sbagliato è guardare al decennio 2000-19 come a un’unica sequenza di presunti errori e tranciare giudizi fallimentari sulle politiche economiche che l’Italia ha cercato di adottare per gestire l’uscita dalla doppia recessione. Infatti, il primo periodo è stato caratterizzato negativamente da un eccesso di politiche di austerità che, pur parzialmente necessarie per arginare la crisi del debito del 2011, hanno fortemente penalizzato l’Italia. Nel secondo periodo invece sono prevalse politiche più equilibrate di rigore e crescita che, al netto del contributo del settore pubblico, hanno visto l’Italia progredire per un intero triennio addirittura di più di Germania e Francia.
Dunque, se si vuol essere oggettivi è stato “orribile” soprattutto il quinquennio 2010-14 in cui hanno trovato applicazione, generando decrescita, proprio quelle misure che paradossalmente sono state sempre un “pallino” (quasi una ossessione ideologica) di molti di coloro che hanno definito “orribile” l’intero decennio. Mentre è stato ottimo il quadriennio 2015-18, periodo in cui l’economia italiana ha dato prova di ragguardevoli capacità di reazione nel momento in cui è stata opportunamente stimolata da politiche mirate a rilanciare il potere d’acquisto e i consumi delle famiglie, l’occupazione e gli investimenti delle imprese: politiche della cui efficacia non sembra però esservi assolutamente consapevolezza nella letteratura giornalistica e tra i commentatori ritenuti più autorevoli o presunti tali.
Per dare evidenza di ciò che stiamo affermando considereremo qui la dinamica del valore aggiunto di Italia, Germania e Francia negli ultimi 9 anni per cui sono disponibili dati statistici completi: il periodo 2010-18 (fonte: Eurostat). Considereremo altresì non soltanto la dinamica aggregata del valore aggiunto ma anche il contributo che ad essa hanno dato i principali settori che concorrono alla formazione del Pil dal lato dell’offerta.
Se guardiamo agli interi nove anni 2010-18, i numeri condannano effettivamente l’Italia, il cui valore aggiunto è aumentato complessivamente soltanto del 3,4% contro il +12% della Francia e il +19,2% della Germania. Ma se scomponiamo i nove anni in due periodi distinti le cose cambiano radicalmente. Infatti, nel quinquennio 2000-14 il valore aggiunto italiano arretra dell’1,6% mentre Germania e Francia, che non hanno praticato alcuna austerità, crescono rispettivamente dell’11,5% e del 6,3%. Nel quadriennio 2015-18 il quadro muta assai. Infatti, il valore aggiunto della Germania aumenta del 7,8%, quello della Francia del 5,8% e quello dell’Italia del 5%. Il distacco tra noi e gli altri dunque si riduce.
Ma non è tutto. In questo secondo periodo, infatti, diversamente da ciò che pensano molti ideologhi della spending review, l’Italia non ha fatto per nulla leva sul proprio settore pubblico per crescere, stante il contenimento delle retribuzioni dei dipendenti pubblici e della spesa corrente prima degli interessi. Anzi, pubbliche amministrazioni, difesa, sanità ed educazione nel 2015-18 hanno dato un contributo negativo dello 0,4% alla crescita cumulata del valore aggiunto totale italiano, mentre il settore pubblico ha contribuito “keynesianamente” addirittura per il 2,2% alla crescita tedesca e per lo 0,5% alla crescita francese.
Depurato del contributo del settore pubblico, l’aumento del valore aggiunto italiano è stato nel 2015-18 del +5,4%, contro il +5,6% della Germania e il +5% della Francia: dunque valori in linea a quelli dei nostri partners. Alla crescita italiana di questo quadriennio hanno contribuito in modo determinante l’industria in senso stretto con un +2% cumulato e il settore commercio, trasporti e turismo con un +2,1%.
In particolare, l’Italia è cresciuta molto nel triennio 2015-17, che ha rappresentato la parte migliore della nostra seconda metà di decennio. Infatti, in tutti i tre anni del triennio 2015-17 il valore aggiunto italiano complessivo, al netto del contributo del settore pubblico, è aumentato addirittura di più di quelli di Germania e Francia.
In conclusione, non vi è stato alcun clamoroso “errore nella gestione della crisi”. Anzi, misure come gli 80 euro, il Jobs Act, le decontribuzioni e il Piano Industria 4.0 ci hanno permesso di performare a lungo nella seconda metà del decennio scorso meglio dei tedeschi e dei francesi nel settore privato. Finché molti commentatori continueranno a non conoscere questa semplice evidenza statistica, essi persisteranno nel volerci insegnare come secondo loro l’Italia può crescere di più non sapendo che in realtà la nostra economia aveva già cominciato a farlo e ignorandone il perché.
Servono dunque analisi meno superficiali e preconcette sulla crescita italiana e sulle sue determinanti reali. Le politiche che hanno dimostrato di funzionare nel recente passato, ma che non sono state premiate né elettoralmente né nei giudizi dei cosiddetti esperti, andrebbero proseguite, così come servirebbe concentrarsi di più sulle numerose riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno e su cui si è soffermato Prodi nell’articolo sopra citato.