Pil in frenata, incognita tassi, clausole Iva da disinnescare, manovra correttiva che parte da 5 miliardi e potrebbe attestarsi a 9 miliardi nell’anno in corso – secondo le stime del Centro studi di Confindustria – cui andrebbero ad aggiungersi circa 11 miliardi della manovra per il 2019. Doppia correzione da provare a evitare o quanto meno contenere, a fronte dell’impegno a ridurre il debito (e quindi a non smontare la riforma delle pensioni, in linea con il monito di ieri della Bce) mantenendo ferma la rotta sui conti pubblici e spalmando su cinque anni il costo delle misure previste dal contratto di governo. Conti alla mano, la ricognizione dei margini a disposizione, in vista della Nota di aggiornamento del Def di fine settembre e della legge di Bilancio di metà ottobre parte decisamente in salita.
Il Governo punta a ottenere nuovi spazi di manovra da Bruxelles, per neutralizzare in deficit le clausole Iva, anche attraverso l’utilizzo del fondo sociale europeo per finanziare in parte il reddito di cittadinanza. Per il resto, si attende l’esito del Consiglio europeo in corso a Bruxelles sul tema decisivo della gestione dei migranti e su quello della riforma della governance economica europea. L’elenco degli impegni da onorare è consistente. Ai 12,4 miliardi che serviranno a evitare l’aumento dell’Iva va ad aggiungersi (almeno sulla carta perché la trattativa con Bruxelles è alle battute iniziali) la correzione dei saldi. Se vi si sommano i 3-4 miliardi da destinare alle spese indifferibili (tra cui il finanziamento delle missioni internazionali) si raggiunge una cifra lorda molto consistente, non molto lontana dai 30 miliardi. Senza considerare la manovra vera e propria. A una prima analisi restano ben pochi spazi per finanziare l’avvio di fondamentali interventi previsti dal “contratto di governo”, dalla Flat tax al reddito di cittadinanza per finire con il superamento della legge Fornero.
Ben si comprende allora la prudenza del ministro dell’Economia Giovanni Triache ha parlato non a caso di giochi già quasi fatti per il 2018. Il rinvio alla prossima settimana del cosiddetto decreto dignità ne è ulteriore conferma. Il problema è che il rallentamento della crescita (si va verso l’1,2-1,3% rispetto all’1,5% stimato dal Def varato lo scorso 26 aprile dal governo Gentiloni), complica il quadro delle variabili di finanza pubblica, anche al netto di una possibile riedizione (con nuova flessibilità Ue) della “clausola migranti”. Si parte da un deficit tendenziale dello 0,8% nel 2019, ma prima di tutto occorrerà centrare l’1,6% stimato per quest’anno sulla base di un Pil in aumento dell’1,5 per cento. Il trascinamento sul prossimo anno del maggiore deficit dovrà essere incorporato nel nuovo target programmatico da definire a fine settembre. Lo spazio teorico di manovra a disposizione si attesta in un range tra lo 0,3 o lo 0,5% del Pil. Per il resto, il Governo si dovrà affidare a un primo ma contenuto mix di tagli alla spesa e aumenti di entrata, tenendo conto che le una tantum non potranno essere utilizzate ai fini del calcolo del deficit strutturale né potranno coprire aumenti permanenti di spesa o piani pluriennali di riduzione delle tasse. Ma anche l’arma del deficit andrà maneggiata con cura, perché prima ancora di Bruxelles il giudizio che conta è quello dei mercati. E con lo spread inchiodato a oltre 100 punti in più dello scenario precedente alla formazione del governo, gli spazi si riducono ulteriormente.