Ascoltarli è una boccata d’ossigeno. Se il mondo fosse tutto com’è lì, nella sala in cui i Champions piemontesi raccontano le storie delle loro aziende, non staremmo a parlare di stagnazione, o rischio recessione, o quel che sarà. Neppure a Torino, né nelle altre province industriali della regione. Loro sono i primi, però, a sapere di essere eccezioni. Lo vedono, quel che c’è là fuori. E allora, in un venerdì pomeriggio passato nelle sede di Teoresi a confrontare esperienze, analisi, speranze ma anche timori, accanto al giusto orgoglio di chi riesce a sfidare e vincere persino i momenti peggiori si fa spazio qualcosa che è difficile definire. Forse più che preoccupazione è amarezza. Il senso di quello che potrebbe essere «se solo». Loro, i Campioni che L’Economia e ItalyPost hanno incontrato nella prima tappa del viaggio tra le nostre migliori piccole-medie imprese e che ritroveremo questa sera all’Unione torinese, in una platea allargata a chi sta appena un filo sotto gli elevatissimi parametri-Champions, corrono e correranno. Le loro città, la loro regione no. Peggio. Il Piemonte culla del manifatturiero italiano non è più nemmeno parte del triangolo industriale, sorpassato dall’infinitamente più dinamica Emilia Romagna.
Non è, come si potrebbe pensare, «colpa» solo del ridimensionamento di un settore automotive che in tutta Europa vive l’ennesima stagione di crisi (anche di identità). Ovvio: se rallenta Fiat Chrysler Automobiles, rallenta l’intero sistema che le sta attorno e che ha fatto di questa terra un pilastro storico della manifattura made in Italy, motore della Ricostruzione e poi del boom economico. Quello però era il Novecento. Nel Duemila, il Piemonte ci è entrato a scartamento ridotto. E continua a rallentare. Dall’implosione che a inizio secolo la portò a un soffio dalla chiusura ha saputo uscire Fca, reinventata da Sergio Marchionne, e hanno saputo uscire la regione e il suo capoluogo, reinventati (in parte) dall’obbligo di non essere più Fiat-dipendenti e dalla conseguente necessità di immaginare un futuro differente, darsi una visione, costruire un progetto. Che è ciò che al Piemonte manca oggi. Vent’anni fa lo starter della diversificazione fu la corsa per aggiudicarsi le Olimpiadi invernali. Ora, il gancio del ritorno allo sviluppo dovrebbe essere la Tav. Conosciamo le polemiche che la bloccano. Non conosciamo un’idea alternativa.
Chiedete a chiunque, e per quell’aria un po’ depressa che si respira soprattutto nel capoluogo avrete la stessa spiegazione: «La visione che non c’è». Torino e il Piemonte non ne hanno la scoraggiante esclusiva. È il Paese, che è bloccato. Ma così la spirale si autoalimenta. Questa è una regione che un tempo trainava il Prodotto interno lordo nazionale: da anni la sua crescita — +1,2% nel 2017, +1,1% l’anno scorso, +0,4 la stima 2019 secondo gli Scenari per le economie locali di Prometeia, pubblicati a gennaio e ripresi dall’ultimo rapporto Piemonte Impresa dell’Unione Industriale torinese — sta largamente al di sotto di quella del nuovo triangolo industriale Milano-Bologna-Venezia, e a volte persino più in basso della media nazionale. Idem per l’export: nel 2018 è addirittura sceso (—2,3%), quest’anno è visto in aumento di poco più del 2%. Né il clima di fiducia tra gli imprenditori lascia immaginare una svolta. L’«aria depressa» di cui sopra è ben fotografata dall’ultima Indagine congiunturale presentata da Confindustria Piemonte: certifica per gennaio-marzo 2019 il terzo calo trimestrale consecutivo delle aspettative per ordini-produzione-occupazione e, più ancora, il ritorno al rosso del rapporto ottimisti-pessimisti.
Sono numeri e analisi che da un lato rispecchiano la realtà. Dall’altro, lasciano il cattivo retrogusto delle potenzialità sprecate. È quello che i Champions del Piemonte ti dicono subito, quando parlano di un territorio con cui hanno legami fortissimi, e dar loro torto sarebbe complicato. Non sono «Campioni» solo per meriti di bilancio e capacità di investire, innovare, fare squadra con i propri dipendenti, vincere sui mercati, guadagnare, reinvestire e ricominciare il ciclo. Tutto ciò vale per ciascuna delle nostre imprese top performer. Qui più che altrove è però evidente l’equazione «crisi uguale (anche) opportunità». Quando la Fiat era sull’orlo del fallimento, le piccole-medie aziende dell’indotto più dinamico hanno fatto come chi era diventato grande prima di loro: si sono emancipate dalla comodità del cliente dietro l’angolo, hanno bussato agli altri costruttori in giro per il mondo, si sono superspecializzate in nicchie tecnologiche nelle quali oggi non hanno rivali. Dopodiché, mentre altri chiudevano, loro hanno accompagnato il Lingotto prima in America, ora alla svolta elettrica promessa a Mirafiori.
Con queste imprese, e per le stesso tipo di selezione della specie legata portata con sé dalla Grande Crisi Globale, è cresciuto il peso della meccatronica. Così come con il dolciario (che non è solo Ferrero) e l’alimentare-bevande (che non è solo Lavazza) si è sviluppato un polo del packaging che ormai ha superato il peso del distretto del tessile. Potremmo continuare. Il microcosmo Champions, non più autocentrico, è un concentrato di tecnologia e innovazione che alla tradizionale industria pesante o del food-beverage aggiunge, per esempio, campioni della più avanzata nutraceutica mondiale. La domanda, perciò, è: possibile, che di un modello non si riesca a fare un sistema?
*L’Economia, 15 aprile 2019