Piazza Affari si appresta a chiudere la prima metà dell’anno con un monte utili in crescita dell’8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso per un controvalore complessivo che dovrebbe attestarsi oltre i 22 miliardi di euro. La stima, basata sulle previsioni di consensus riferite alle società del listino Ftse Mib, riflette il contributo delle componenti dei settori storicamente più rappresentative in termini di capitalizzazione: energia e finanza. È in particolare quest’ultimo comparto che dovrebbe far registrare la crescita più importante con un aumento dei profitti del 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Gli istituti di credito dovrebbero beneficiare del calo dello spread che si è visto nella prima metà dell’anno anche se il contributo maggiore all’aumento degli utili dovrebbe arrivare dalle poste straordinarie come ad esempio la cessione della partecipazione in Fineco da parte di Unicredit che da sola vale un miliardo.
Chi invece dovrebbe deludere è il comparto industriale. «La prospettiva di un rallentamento dell’economia globale e il clima di incertezza dovuto alla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina – spiega Domenico Ghilotti co-head dell’Ufficio Studi di Equita Sim – sono una zavorra per l’industria ed è soprattutto per questa ragione che abbiamo tagliato le stime sugli utili delle società del comparto». La sforbiciata – spiega Ghilotti – è stata fatta soprattutto tra dicembre e marzo e ha pesato sulla revisione al ribasso che la casa d’affari ha fatto sul monte utili 2019 dell’intero listino: rispetto a un anno fa Equita ha ridotto la stima di utili per le società del Ftse Mib dell’8%». Ghilotti non esclude di dover tagliare ancora le stime sui titoli industriali nella seconda parte dell’anno. La tendenza pare generalizzata tra gli analisti: fino a due mesi le stime di consensus di Refinitiv sul secondo trimestre 2019 mettevano in conto una crescita del 3,5% degli utili per le società dell’indice Stoxx 600, oggi si prevede un aumento dello 0,8. Il quadro, d’altronde, non appare esattamente roseo. Lo dimostrano i profit warning lanciati negli ultimi giorni da colossi del made in Germany del calibro di Basf, che ha tagliato del 30% le sue previsioni di utile per l’anno in corso, o Daimler, che per la quarta volta dall’inizio dell’anno ha ribassato le stime annunciando una perdita da 1,6 miliardi per il secondo trimestre. «La maggior parte delle previsioni delle società quotate in Europa e negli Usa – spiega Sanjeet Mangat, investment director di Aberdeen Standard Investments – è stata fatta sul presupposto che le tensioni sul commercio sarebbero rientrate. O quantomeno che non ci sarebbe stato un deterioramento». In realtà è successo il contrario. Nonostante la tregua siglata al G20 di Osaka tra Trump e Xi Jinping il clima resta teso. Soprattutto per via delle decisioni dell’amministrazione Usa: nuovi dazi sull’acciaio semilavorato importato da Cina e Messico sono stati annunciati lunedì mentre la scorsa settimana la lista delle merci importate dall’Ue a rischio dazi è stata portata da 21 a 25 miliardi di dollari. Gli Usa hanno inoltre annunciato l’apertura di un’indagine sulla nuova normativa fiscale sul digitale introdotta in Francia: se fosse appurato un potenziale danno alle compagnie tecnologiche Usa non si esclude di introdurre dazi su merci francesi come auto o vino. Secondo Sanjeet Mangat in questa fase «l’impatto della guerra commerciale sui risultati societari è indiretto». Tra Stati Uniti ed Europa siamo ancora alle schermaglie «ma il contesto di elevata incertezza – spiega – ha costretto molte aziende a rivedere i piani di investimento futuri».
Eppure, nonostante tutto, le Borse europee restano in rialzo di quasi 15% da inizio anno grazie soprattutto alla svolta espansiva delle banche centrali. Ma quanto ancora la promessa di aiuti monetari potrà spingere l’azionario se il quadro macro e i fondamentali sono in peggioramento?