«Finalmente posso muovermi senza avere il freno a mano tirato…». Quando Giuseppe Conte lo ha confidato, nelle ore immediatamente successive al giuramento del suo secondo governo, probabilmente pensava in primo luogo all’Europa: a quel consesso di alleati con i quali nei mesi scorsi a Bruxelles ha dovuto trattare su ogni punto. Le bordate antieuropee che arrivavano quasi quotidianamente dalla Lega, e a intermittenza anche dal M5S, indebolivano il governo e l’Italia, mettendola sempre sull’orlo dell’isolamento. Poi, di colpo, lo sfondo è cambiato. Mercoledì notte dalla Commissione è arrivata la voce di un incarico importante per l’Italia dell’esecutivo «giallorosso». La designazione dell’ex premier Paolo Gentiloni a commissario agli Affari economici suona, nell’ottica di Palazzo Chigi, come lo sfondamento dei pregiudizi anti-italiani. Implica la legittimazione di Conte come king maker di una carica prestigiosa e, fino a qualche giorno fa, imprevedibile. E consente all’Italia di provare a riformare il patto di Stabilità, stavolta in raccordo e non in guerra con l’Ue. Ma guardando indietro, ai quattordici mesi di «contratto» conflittuale tra Movimento Cinque Stelle e Lega, di «freni a mano» il presidente del Consiglio ne ha visti altri: molti, troppi.
Per questo, le sue prime mosse sembrano dettate quasi dall’ossessione di smussare e se possibile eliminare ostacoli considerati spesso artificiosi, intossicati da logiche elettorali. Nella metamorfosi da «premier Travicello», ostaggio degli alleati, a capo di un governo politico, la voglia di affermare uno stile diverso rispunta spesso. Anche ieri, in Consiglio dei ministri, Conte ha ribadito che non vuole «sgrammaticature istituzionali» e pretende «leale collaborazione». Richieste ragionevoli, che però le trattative dei giorni scorsi tra M5S e Pd hanno rischiato di smentire tra accuse di «poltronismo» e ritorsioni polemiche. Non basteranno le buone maniere a saldare interessi e culture di due formazioni politiche divise da anni di insulti, odi e lotte per la conquista dell’elettorato.
Eppure, la formazione del governo e la scelta di alcuni ministri sono indicative. Lo lasciano capire la squadra dai contorni il più possibile istituzionali in costruzione a Palazzo Chigi, la «spoliticizzazione» del Viminale, la strategia comunicativa. Al prossimo Consiglio dei ministri dovrebbe essere nominato sottosegretario Roberto Chieppa, attuale segretario generale: nomina di uno stretto collaboratore da affiancare all’ex ministro dei 5 Stelle Riccardo Fraccaro, imposto dall’ex vicepremier grillino Luigi Di Maio, oggi alla Farnesina. Quanto al ministero dell’Interno, è una delle sfide strategiche dell’esecutivo.
Occupato fino a pochi giorni fa dal leader leghista Matteo Salvini, è stato usato in modo discutibile ma vincente sull’immigrazione come piedistallo elettorale. Avere messo al vertice il prefetto Luciana Lamorgese indica l’intenzione di restituire al Viminale la sostanza di ministero di garanzia per definizione, politicamente neutro. Per questo alla fine si è optato per una figura «tecnica», nonostante qualche controindicazione. Sarà una corona di viceministri e sottosegretari all’Interno a essere espressione dei partiti della maggioranza; e a confrontarsi con un Conte che continua a ripetere di essere «il primo responsabile» di come andranno le cose.
Si tratta di un fronte scivoloso, che la Lega può presidiare anche dall’opposizione. L’idea di conciliare rigore e contrasto all’immigrazione clandestina con l’accoglienza e la fine della politica dei «porti chiusi» richiede risposte difficili da calibrare: soprattutto sotto la pressione di un’opinione pubblica abituata per mesi a risposte «muscolari»; divisa sulla politica salviniana ma preoccupata e spaventata da un allarme eccessivo. Anche su questo, sarà fondamentale la sponda europea: in primo luogo per ottenere risorse e fare approvare una legge sui rimpatri che attenui il carico migratorio su nazioni come l’Italia.
E sullo sfondo si staglia il rischio di un cortocircuito nella comunicazione del governo. È stato una costante della maggioranza M5S-Lega. Minaccia di rimanere tale nei rapporti tra Cinque Stelle e Pd. E per Conte rappresenta una preoccupazione così acuta che sta pensando a un avventuroso coordinamento tra i portavoce di tutti i ministeri: una sorta di ufficio stampa trasversale, chiamato a riunioni quotidiane con lo staff del premier. È il riflesso dell’illusione di poter prevenire e controllare i conflitti interni; e la paura di ritrovarsi di nuovo tra guerre verbali tra alleati, destinate a frustrare le ambizioni di durata del governo fino al 2022.