Il segnale d’allarme azionato ieri da Confindustria non può essere derubricato e tantomeno deriso. La previsione dello zero virgola zero per il Pil dell’anno in corso non ha bisogno di molte spiegazioni aggiuntive, da un lato certifica le gravi difficoltà che destabilizzano l’economia e l’industria italiana e dall’altro mostra la profonda insensibilità del governo nei confronti di ciò che sta maturando. Mentre in queste ore il ministro Danilo Toninelli continua a pasticciare sul testo di un provvedimento che si chiama Sbloccacantieri e che invece rischia di ottenere l’effetto contrario, il quadro che emerge è quello di una rischiosissima stasi degli investimenti. Mettendo insieme gli esaurienti report pubblicati in questi giorni dal Centro Studi Confindustria e da Ref Ricerche lo scenario che ci si para davanti è preoccupante. Su tutto spicca la crisi del settore automotive, che — ricordiamolo — aveva portato sulle sue larghe spalle il peso della ripresa iniziata nel 2015 e via via spentasi nel 2018, e che oggi è alle prese non solo con un ristagno della domanda ma anche con profondi interrogativi sui comportamenti dei consumatori di fronte alla transizione tecnologica verso l’elettrico.
Assieme all’auto e al suo ampio indotto anche arredamento, tessile-abbigliamento, calzaturiero, farmaceutico e industria dei beni strumentali sono segnalati in netta contrazione per una serie di cause che vanno dalla fine del ciclo favorevole degli acquisti di beni durevoli alla gelata dell’export. Mantiene le sue posizioni l’alimentare mentre a tirare restano per lo più, e quasi solo, i beni di fascia alta come barche, gioielli e pelletteria. Ma, come è stato giustamente segnalato, per il peso e l’insediamento dei settori coinvolti il rallentamento interessa i territori più industrializzati. In una parola il Nord.
A quest’interessante rassegna dei settori dovremmo forse affiancare un’analisi altrettanto puntuale delle trasformazioni tecnologiche e degli investimenti digitali. Una volta utilizzati gli incentivi del piano Industria 4.0 le imprese avrebbero dovuto andare avanti nell’implementare i processi di innovazione e nel formare il capitale umano necessario per guidarli. Tutto ciò sta avvenendo in maniera estesa? Oppure i segnali che arrivano da un ministero dello Sviluppo economico terremotato dalle scelte di Luigi Di Maio (che per altro nel decreto Crescita promette di riattivare il super-ammortamento dopo averlo cassato) hanno concorso a raffreddare l’entusiasmo e a far prevalere la logica del braccino corto? È facile pensare che stia andando proprio così e allora quella che si prospetta è una sorta di politica industriale all’incontrario: il combinato disposto tra congiuntura di mercato negativa e rinvio delle scelte strategiche. E allora ciò che inevitabilmente finisce per deteriorarsi è il vantaggio competitivo che ancora conserviamo in diversi settori e che oggi è messo alla frusta dai progressi dei sistemi concorrenti, inclusi i cinesi. Conoscete un leader o un ministro capace di misurarsi con questa prova?