Presi dal ritmo infernale della politica interna, gli italiani vanno perdonati stavolta se sono distratti stavolta di fronte a qualcosa di altrettanto intenso che accade lontano da loro. Ma può arrivare vicino, vicinissimo. È il domino che parte dalla Federal Reserve a Washington, o dai livelli elevati di debito in dollari di Paesi emergenti, e arriva alle porte del Fondo monetario internazionale sotto forma di richiesta di prestiti di emergenza. È la sequenza dell’instabilità finanziaria che, secondo il governatore della Reserve Bank of India Erjit Patel, può portare a uno «stop improvviso della ripresa economica mondiale». Avesse ragione il banchiere centrale di Nuova Delhi, a quel punto i problemi partiti dagli emergenti diventerebbero i nostri. Ed è per questo che vale la pena, tra un tweet e un video-post dei politici italiani, dare un’occhiata anche a quanto sta accadendo dall’altra parte del mondo.
Perché qualcosa succede davvero, anche nei palazzi delle istituzioni finanziarie globali. Una decina di giorni fa l’Fmi ha raggiunto un accordo con l’Argentina per un prestito di emergenza da 50 miliardi di dollari mentre il peso completava un crollo del 27% sul dollaro in un mese (per proseguire venerdì scorso con le dimissioni del governatore della Banca di Argentina, Federico Sturzenegger).
Quello è un caso limite eppure emblematico. Con l’attuale presidente Mauricio Macri, in carica da due anni e mezzo, le politiche di Buenos Aires sembravano messe su una rotta che non avrebbe mai dovuto portare all’Fmi. Macri aveva cercato di tenere sotto controllo il deficit e l’inflazione mentre liberalizzava l’economia. Poi però è arrivata una fuga di capitali incontrollabile e la ragione è semplice quanto brutale: 233 miliardi di dollari, pari al 36% del prodotto interno lordo, di debito estero denominato in gran parte in dollari. Non è il massimo storico, perché fino al 2009 l’Argentina viaggiava su livelli ben più elevati, ma è un terzo di più rispetto anche solo a due anni fa.
Qui la Federal Reserve è entrata in gioco, scardinando senza volerlo e senza pensarci i fragili equilibri del Paese sudamericano. Perché non solo la banca centrale americana ha iniziato ad alzare i tassi ufficiali, che ormai viaggiano all’1,75- 2% e dunque attorno al suo obiettivo di inflazione. Soprattutto, la Fed ha iniziato a togliere dollari dalla circolazione sui mercati domestici e internazionali. Dopo aver costruito un enorme bilancio da oltre 4 mila miliardi di dollari, creando moneta e comprando titoli con il «quantitative easing», adesso la banca centrale di Washington sta lentamente tornando indietro. Fino alla fine di questo mese ridurrà il suo bilancio fino a un massimo di 30 miliardi di dollari al mese, evitando di reinvestire i titoli che scadono. Da luglio a settembre lo ridurrà fino a 40 miliardi e da ottobre accelererà fino a 50 miliardi al mese. Alla fine del 2019 avrà tolto dalla circolazione già circa mille miliardi rispetto al picco di 4.500 raggiunto alla fine del 2014.
Ci sono dunque sempre meno dollari in circolazione nell’economia internazionale per finanziare un debito estero in dollari finora crescente di molti Paesi a reddito medio in America Latina, Asia e Africa. Nel frattempo però la concorrenza dagli Stati Uniti stessi per attrarre investimenti in dollari aumenta, perché la riforma fiscale di Donald Trump fa esplodere il deficit pubblico americano. L’emissione netta di titoli di Stato Usa salirà a oltre 1.100 miliardi di dollari quest’anno e anche il prossimo.
Significa che ci sarà sempre meno disponibilità di finanziamento in dollari per i debiti esteri dei Paesi emergenti, dunque questi dovranno finanziarsi a tassi d’interesse sempre più onerosi. L’Argentina, per la sua storia di default e drammatiche svalutazioni, è stata solo la più fragile e la prima a cadere. Del resto nel loro celebre «Questa volta è diverso: otto secoli di follie finanziarie», gli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff fissano al 35% la soglia di sostenibilità del debito estero per i Paesi emergenti. L’Argentina è già oltre, ma appunto non è la sola. In condizioni simili ci sono anche la Colombia, il Cile, l’Ungheria o la Turchia. E proprio quest’ultima sembra essere la prossima tessera del domino pronta a cadere.
In Turchia il debito estero è esploso dal 36% al 53% del Pil negli ultimi sei anni, mentre il presidente Recep Tayyip Erdogan trasformava il suo Paese da democrazia in autocrazia paternalista e autoritaria a colpi di faraonici progetti immobiliari e di infrastrutture. Ora però la musica si è fermata. Negli ultimi cinque mesi la lira turca è precipitata del 26% sul dollaro, dunque i debiti in valuta americana sono aumentati di altrettanto. I tassi di interesse dei titoli di Stato a scadenza di un anno sono esplosi dall’8% al 17%. Gli analisti contano i giorni che separano Erdogan da un’umiliante chiamata al direttore generale dell’Fmi, Christine Lagarde, per chiedere un prestito di emergenza. Non arriverà a buon mercato, almeno non in termini politici: l’Fmi non approva le scelte di Erdogan e le riforme economiche che potrebbe chiedere, dopo le elezioni politiche previste domenica prossima, rischiano di mettere in discussione la credibilità del presidente.
Ma il domino innescato dalla Fed non si ferma qui. Il candidato successivo è poi il Brasile, il cui debito estero pesa per il 26% del Pil ma riscuote scarsa fiducia dagli investitori. Oppure la Colombia, le Filippine, l’Egitto o il Perù. Perché la caduta delle tessere è iniziata. E alla lunga può lambire anche i fianchi fragili d’Europa.