Ha ragione il ministro Luigi Di Maio a sostenere che servono più ispettori del lavoro, maggiore repressione dello schiavismo. Hanno avuto ragione i sindacati confederali a convocare per oggi a Foggia una grande manifestazione di protesta e solidarietà.
Ma i tragici avvenimenti di questi giorni ci devono indurre — almeno a livello di riflessione ex post — a fare un passo in avanti, ad andare oltre repressione e solidarietà e individuare una «via economica» al ribaltamento dello status quo. La verità è che oggi in Italia non si riconosce all’agricoltura il valore che produce, vogliamo giustamente che dai campi arrivi più qualità e insieme maggiore tracciabilità ma alla fine non siamo disposti a pagare né l’una né l’altra.
Dentro la lunga filiera del made in Italy l’agricoltura resta l’ancella, condannata a produrre delle commodity che altri saranno in grado di trasformare, di valorizzare, di fare diventare brand riconosciuti in tutto il globo. Altri poi le venderanno e noi alla fine le consumeremo ma il ritorno economico oggi non si distribuisce equamente lungo questo percorso.
L’innovazione e la modernità sono solo a valle, a monte si resta nel medioevo. A sostenerlo nei mesi e settimane scorsi sono stati alcuni imprenditori agro-alimentari come Guido Barilla e Gianpiero Calzolari (Granarolo) che notoriamente non sono due boy scout ma guidano multinazionali del cibo.
Si può dire, quindi, che a tre anni dallo straordinario successo di Expo non siamo riusciti a chiudere il cerchio: mentre il food si è affermato come un’attività di tendenza che ha persino modificato il paesaggio delle nostre grandi città e rimodellato gli stili di vita, l’agricoltura è rimasta, per larga parte, ancorata al passato.
Lo schiavismo è sicuramente la cifra di business di imprenditori spregiudicati e rapaci, racconta le difficoltà di una lotta al caporalato che non ha ancora trovato il modo di incidere ma è anche il portato di un’attività che si ripaga a stento e scarica le contraddizioni sull’anello debole, il lavoro. Se, come auspichiamo tutti, l’export dei prodotti italiani può aumentare e di molto, se organizziamo seminari per discettare su come far riconoscere (e pagare) al mercato la qualità italiana, se siamo giustamente orgogliosi quando passeggiando per New York o Londra vediamo i consumatori affollare i punti vendita dei campioni del made in Italy, dovremmo anche essere capaci di distribuire il dividendo del successo in maniera più equa.