Più forti, ma anche più fragili. Le donne non sono uguali agli uomini quando si tratta di difendersi dalle infezioni: hanno infatti un sistema immunitario super-efficiente e sono in grado di tenere testa molto meglio agli «intrusi» pericolosi. Difese così agguerrite, però, se vanno fuori controllo possono diventare un problema serio: così le donne hanno anche un maggior rischio di ammalarsi di patologie autoimmuni, quelle in cui il sistema immunitario «impazzisce» e reagisce contro i tessuti dell’organismo. Un equilibrio delicato, spiegato nei dettagli nel libro Fortissime per natura(Piemme) pubblicato da Carlo Selmi, responsabile di Reumatologia e Immunologia Clinica dell’Irccs Istituto Humanitas di Rozzano (Milano) e docente di Humanitas University, che fin dal titolo fa intuire come l’esercito che ci difende dai germi abbia una marcia in più nel sesso femminile: una caratteristica che contribuisce a spiegare perché anche il nuovo Sars-CoV-2 sembri a oggi meno aggressivo nelle donne.
L’esperienza Covid
«I due sessi soffrono in modo diverso di malattie differenti e Covid-19 non fa eccezione, è anzi l’ennesimo caso di malattia infettiva in cui gli uomini hanno esiti peggiori rispetto alle donne», specifica Selmi. «Va detto che i dati di contagio non sono ancora completi, tuttavia l’impressione è che siano più colpiti i maschi. Il rischio di infezione in realtà non dovrebbe essere significativamente differente, se si esclude forse il fatto che le donne sono in genere più ligie nei confronti di indicazioni di prevenzione e terapie; sembra perciò verosimile che anche nel caso di Covid-19 la malattia abbia manifestazioni più gravi al maschile. Del resto fra i pazienti con un decorso più severo oltre 6 casi su 10 sono uomini: possono avere un peso abitudini come il fumo, più diffuse fra i maschi, o anche la diversa espressione della “porta” molecolare per l’ingresso del virus (il recettore ACE2, che protegge il polmone dalle infezioni ma viene “sequestrato” dal coronavirus: il gene che lo codifica è sul cromosoma sessuale X che le donne posseggono in doppia copia con possibili effetti sulla quantità di questo recettore, ndr). Di sicuro l’esito diverso è spiegato però in buona parte dalle differenze nell’immunità, innata e acquisita».
La prima è la componente di difesa istantanea, che si attiva a prescindere dal germe e dalle esperienze precedenti; la seconda è quella per cui si formano anticorpi di memoria, specifici per il microrganismo contro cui si combatte, e che consente di essere protetti in caso di un secondo incontro con lo stesso nemico.
Scelte evolutive
Entrambe sono più robuste nelle donne, e non è un caso come fa notare Selmi: «La donna è la chiave del processo evolutivo della specie, il fulcro del meccanismo di autoconservazione: la natura la vuole proteggere dalle infezioni, soprattutto in età fertile e in gravidanza, quando le difese raggiungono livelli stupefacenti. La maggiore “irascibilità” del sistema immunitario femminile però ha un rovescio della medaglia, si traduce infatti in una maggiore predisposizione a reagire erroneamente a stimoli innocui».
Oltre cento patologie
Le malattie autoimmuni, infatti, sono per lo più un problema al femminile: si tratta di un centinaio di patologie croniche che per l’80 per cento colpiscono le donne, soprattutto prima della menopausa. Tutte le malattie autoimmuni sono multifattoriali, conta cioè la predisposizione genetica ma poi per scatenare l’auto-aggressione occorrono altre condizioni legate all’ambiente, come le infezioni batteriche o virali. Purtroppo prevenirle è difficile, come spiega Selmi: «Lo stile di vita conta, per cui certamente è bene non fumare e non essere in sovrappeso: sappiamo che l’incidenza è inferiore in chi segue la dieta mediterranea e che le malattie autoimmuni hanno un decorso peggiore in chi ha chili di troppo. Detto ciò però è impossibile una prevenzione davvero mirata».
Diagnostica migliore
Queste patologie sono in crescita e si sono tirati in ballo tanti fattori per spiegarlo, dallo smog al fumo, dalla sedentarietà alle radiazioni; in realtà secondo l’esperto l’incremento dipende soprattutto dal miglioramento dei test diagnostici, pur restando malattie non facili da riconoscere perché spesso non hanno sintomi netti, soprattutto all’inizio. «Profonda stanchezza, febbricola, malessere, dolori articolari sono segni frequenti, ma comuni a molte altre patologie e poco specifici», precisa Selmi. «Tuttavia una diagnosi corretta e tempestiva delle malattie autoimmuni è decisiva, perché riconoscerle nelle prime fasi consente di iniziare la terapia prima che si instaurino danni permanenti a tessuti e organi, evitando la perdita della funzionalità. Le cure hanno fatto grandi passi avanti: non ne esistono di risolutive, che riprogrammino il sistema immunitario consentendo una completa guarigione, ma i farmaci biologici, per esempio, hanno rivoluzionato il trattamento di molte patologie e oggi la maggioranza dei malati può condurre una vita del tutto normale, seppur tenendo conto di dover assumere un numero elevato di medicine di vario tipo».
Le cure
Per ogni paziente va sempre valutato il rapporto costo-beneficio perché se da una parte i farmaci, per esempio quelli biologici ma anche i più classici cortisonici, tengono sotto controllo la malattia, dall’altra essendo spesso immunosoppressivi e da assumere per molto tempo possono rendere meno «intelligente» il sistema immunitario esponendo di più alle infezioni. «Non facilitano invece il cancro, come si è erroneamente ritenuto in passato», puntualizza Selmi.
Si cerca dove possibile di ovviare usando immunomodulatori, ma pensando all’ipotesi di una maggior fragilità di fronte ai germi viene da chiedersi se allora i pazienti con malattie autoimmuni siano più esposti al Covid-19. «Non è così, anzi sembra quasi il contrario: del resto svariati farmaci impiegati contro malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide si stanno testando contro il coronavirus», risponde Selmi. «La Società Italiana di Reumatologia, proprio per capirne di più, ha avviato un registro di pazienti con Covid-19 e artrite reumatoide. Fra i miei con lupus eritematoso sistemico in terapia con idrossiclorochina, per esempio, nessuno si è ammalato; fra quelli con artrite reumatoide ci sono stati quattro casi, tutti risolti. È però presto per trarre qualsiasi conclusione, serviranno ulteriori studi», conclude l’esperto.
*Il Corriere della Sera, 28 maggio 2020