La sostenibilità ambientale delle tecnologie digitali è senza dubbio uno dei tanti temi rivitalizzati dall’Agenda 2030 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ma il faro acceso dall’Onu sull’impatto dell’innovazione sull’ambiente non ha avuto solo il merito di scaldare la discussione tra osservatori, analisti ed esperti su un tema sottovalutato. Negli ultimi tempi e soprattutto dopo l’avvento della pandemia, infatti, si sono aperti scenari inediti di sviluppo sostenibile che vanno ben oltre il semplice legame positivo o negativo tra la tecnologia e l’ambiente. E l’avanzata del paradigma della cosiddetta “sostenibilità digitale” a livello nazionale, europeo ed internazionale ne è forse la prova più evidente.
«Abbiamo ragionato per anni attorno al tema delle tecnologie chiedendoci se fossero positive o negative, dall’intelligenza artificiale al cloud, ma dovremmo chiederci piuttosto come progettarle affinché producano impatti positivi sulle persone. La domanda può risultare vaga ed è proprio qua che entra in gioco il legame con la sostenibilità – spiega a Repubblica Stefano Epifani, docente di Internet Studies dell’Università La Sapienza di Roma presidente del Digital Transformation Institute e autore di “Sostenibilità digitale”, un libro ad hoc su questo tema – Le tecnologie non solo non devono far male ma possono fare bene e la tecnologia è positiva se ci aiuta a centrare gli obiettivi di sviluppo sostenibile, che non significa semplicemente avere tecnologia sostenibile per l’ambiente. Non si tratta cioè solo di ridurre le impronte di carbonio dei data center, bensì di abbracciare il più ampio concetto della sostenibilità digitale superando la dimensione della sostenibilità della tecnologia».
Il concetto di sostenibilità digitale non è dunque l’unione di sostenibilità e innovazione, bensì un paradigma che nasconde un ripensamento profondo della sostenibilità, anche e soprattutto ambientale, così come l’abbiamo intesa finora. Non certo una sfida semplice, tant’è che secondo Epifani una delle grandi sfide riguarda la divulgazione di questo paradigma: «La tecnologia non è semplicemente uno strumento ma un sistema complesso all’interno del più ampio tema della sostenibilità. Oltre all’economia, alla società e all’ambiente c’è infatti proprio la tecnologia, che interagisce con tutti e tre i sistemi ridefinendoli. Pensiamo nello specifico all’ambiente: se inseriamo nella gestione dei campi agricoli più innovazione digitale, non ci limitiamo a ridurre l’utilizzo di prodotti chimici. La digitalizzazione genera infatti allo stesso tempo un impatto positivo sulla resa economica di un ettaro di terreno, una riduzione dell’impatto ambientale della produzione e un miglioramento della condizione del contadino».
Nella visione tratteggiata da Epifani la sostenibilità digitale funge dunque da collante tra le varie dimensioni della sostenibilità, impattando positivamente su ciascuna di esse. Di conseguenza, sostiene l’esperto, se ci focalizziamo solo sull’ambiente perdiamo la portata più ampia del problema. «Quando guardiamo alla sostenibilità spesso facciamo troppo riferimento all’ambientalismo e poco riferimento all’ambiente. Depurare dalla dimensione ideologica le scelte di sostenibilità è un passaggio imprescindibile per arrivare a poter affrontare il tema nel modo corretto. La sostenibilità non è un tema etico o ideologico, perché ogni ideologia ammette un contraddittorio, ed oggi non possiamo pensare a contraddittori guardando alla sostenibilità: non esistono opzioni, esistono scelte».
Il messaggio lanciato in chiusura da Epifani è chiaro: la sostenibilità, in virtù della sua natura, deve essere vista in un’ottica di sistema. «Dobbiamo farlo perché la sostenibilità è un tema sistemico, complesso, che richiede modelli di analisi inferenziali e che richiede adattività delle strategie. Ed è proprio l’unione di questi quattro fattori a fare della tecnologia digitale un alleato essenziale per lo sviluppo di modelli di sostenibilità per imprese, istituzioni ed intere nazioni. La sostenibilità senza tecnologia – conclude Epifani – rischia di diventare un’interpretazione ingenua della decrescita felice».
*La Repubblica, 14 dicembre 2020