“Sindrome di Atlante”. Così la definiscono ai piani alti del ministero delle Finanze. La Germania come il titano della mitologia greca: perennemente condannata a caricarsi sulle spalle il peso dell’universo. «È sempre colpa nostra: se l’export galoppa, dicono che schiacciamo tutti. Se frena, dicono che strangoliamo tutti». Abbiamo raccolto questo sconsolato commento a microfoni spenti alla fine di una faticosa missione del ministro delle Finanze Olaf Scholz alle riunioni primaverili del Fmi, dove è finito sul banco degli imputati. Esattamente come l’Italia, ma per motivi opposti. Alla Germania è toccata una tirata d’orecchi — persino dallo storico partner francese — perché spende troppo poco a fronte di una crisi delle sue esportazioni e un mostruoso rallentamento della sua economia — dovuto anche a una crisi dell’auto della quale si fatica ancora a misurare la gravità.
Berlino si rifiuta testardamente di sforare il disavanzo per spingere la produzione esangue. Il socialdemocratico Scholz, che sogna di candidarsi alla cancelleria nel 2021, non vuole certo entrare nella storia per aver infranto il tabù del pareggio di bilancio. Per i tedeschi il rigore è l’undicesimo comandamento. Ed è talmente ideologico da rappresentare uno dei maggiori limiti di una Germania che nel caso di una crisi grave come la Brexit o i dazi americani potrebbe sprofondare in recessione. Come ci raccontò tempo fa l’economista Peter Bofinger, il Paese nutre una ferrea diffidenza per le ricette keynesiane — iniezioni di soldi pubblici per stimolare l’economia — perché considera Adolf Hitler il proprio keynesiano più famoso.
Oggi il governo dovrebbe aggiornare le stime del Pil per il 2019, tagliando la crescita prevista dall’uno allo 0,5%. Una correzione che risente della storica vulnerabilità di un Paese le cui esportazioni valgono il 40% della ricchezza prodotta e garantiscono il 30% dei posti di lavoro — nell’industria addirittura uno su due. E non dà grande conforto nemmeno qualche segnale in controtendenza, come l’indice Zew della fiducia delle imprese, che proprio ieri ha segnato il primo dato positivo in un anno.
Il ” campione mondiale dell’export” è azzoppato da quella che continua ostinatamente a ritenere una virtù. Il famoso 8% di surplus che è sempre stato oggetto di critiche dai partner europei o dal Fmi e dall’Ocse, oggi sta arretrando perché risente delle guerre commerciali e della forte frenata della Cina. Dinamiche che non sembrano preoccupare Scholz. Ieri il ministro delle Finanze ha commentato così la pesante revisione al ribasso del Pil: « Una crescita lenta è pur sempre una crescita». Una frase degna del miglior Catalano.
Uno dei cinque saggi di Angela Merkel, l’economista Lars Feld, si mostra fiducioso: dopo un periodo di crescita robusta « siamo in una fase di normalizzazione » , argomenta. E per la Germania «la forte internazionalizzazione della sua catena di valore resta una virtù. È anche normale che shock esogeni si facciano sentire in modo sensibile ». Lo shock esogeno principale si chiama Cina: le esportazioni verso il Dragone sono quadruplicate tra il 2000 e oggi e il forte rallentamento della sua economia al 6% significa anche che il secondo partner commerciale tedesco traina meno.
Uno sguardo ai primi mesi del 2019, però, è pauroso. Cede la produzione industriale, crollano gli ordini: la Germania sembra già paralizzata in un anno gravato dall’incognita sulla hard Brexit che da sola, secondo il Bdi, la Confindustria tedesca, potrebbe costare mezzo punto alla crescita. Per non parlare dell’ipotesi che i dazi americani del 25% vengano inflitti alle auto. « In quel caso, la recessione è certa » ci spiega Claus Michelsen, capoeconomista dell’istituto economico Diw. E aggiunge: « Se Trump imponesse addirittura dazi ai prodotti europei in generale, e non solo all’auto, la nostra economia subirebbe uno shock paragonabile al primo anno della Grande crisi». Allora il Pil tedesco crollò del 5%.
Intanto, proprio dalle fabbriche che spingono la prima economia europea, quelle delle auto, arrivano rumori sinistri. La crisi potrebbe infliggere al settore una contrazione del 5%. Ma per molti osservatori, in questi mesi si pone una questione cruciale per il settore dell’auto, che va al di là dei rallentamenti congiunturali. Persino al di là degli scandali che stanno terremotando le big da quattro anni, come il Dieselgate, o della questione se la Germania dovrà imporre divieti ai diesel nelle città per le norme Ue sull’inquinamento.
Il cuore della Germania rischia l’infarto se non recupera i ritardi sulle nuove tecnologie e si prepara alla cosiddetta era della post-combustione, cioè al declino del motore a scoppio e all’ascesa dell’elettrico, dell’idrico e dell’ibrido. Che potrebbe anche costarle una valanga di licenziamenti. Vari indizi rivelano la crisi di identità di un settore che vale un quinto delle esportazioni e dà lavoro a 834.500 tedeschi. Secondo alcune stime, tra 75 mila e 210 mila posti rischiano di sparire entro il 2030. E l’elettrico potrebbe crearne solo 25 mila. Si pensi alla differenza dei lavoratori che ci vogliono per costruire il motore della Bmw M5, un sofisticato bestione da due quintali, composto da 1.200 pezzi, e quelli necessari per una batteria elettrica che conta due dozzine di componenti appena e che una persona può sollevare da sola. Bmw ha già riqualificato un terzo dei 133 mila lavoratori all’elettrico. Ma non è chiaro quanti degli altri sopravviveranno nell’era della post-combustione.